giovedì 6 dicembre 2012

Nuove misure di sostegno e investimento sul futuro



Si è in particolare affrontato il tema delle monete complementari come forma di supporto alla liquidità e trasferibilità dei crediti con funzione anticiclica.

Interessanti soprattutto gli interventi di Massimo Amato e Luca Fantacci, dell'Università Bocconi di Milano (fatto da sottolineare, e per l'importanza dell'università e per l'impostazione delle loro proposte, che qualcuno definirebbe poco 'bocconiane'), che stanno progettando una moneta complementare per la città di Nantes.

Non mi dilungo, potete leggere una breve descrizione qui, dal blog curato dagli stessi Amato e Fantacci su Linkiesta..
Il modello della "camera di compensazione" che Amato e Fantacci propongono per Nantes si rifà esplicitamente alle proposte della International Clearing Union e del Bancor fatte da Keynes a Bretton Woods (si veda in proposito il volume, a cura e con interessante introduzione dello stesso Fantacci: J.M. Keynes, Eutopia. Proposte per una moneta internazionale, et. al. Edizioni, Milano 2011).

Insomma, sarà una fissa, ma John Maynard Keynes torna sempre buono, specie quando ci si trovi nella necessità di trovare soluzioni a una crisi colossale come quella che stiamo vivendo.

Tra le proposte di Amato e Fantacci, quella che soprattutto può direttamente interessare a noi è l'idea di finanziare il terzo settore, comprese le attività culturali, con una percentuale stessa dei crediti non utilizzati nella camera di compensazione che si sta progettando per la città di Nantes. Pare che le stesse autorità locali siano molto interessate a questa opportunità. 

Personalmente rimarrei comunque dell'idea di esplorare le possibilità del credito di imposta trasferibile, anche se capisco che la proposta delle monete complementari risulti, anche per ragioni politiche, relativamente di più facile e immediata applicabilità. 

Comunque, morale di tutto: si tratta del riconoscimento del fatto che nel contesto in cui viviamo vi è un enorme problema di liquidità della moneta (di vera e propria "trappola della liquidità, dovuta proprio a come è stato costruito l'euro" ha parlato Massimo Amato nel convegno milanese). 
Insomma, il 'contante' circola sempre meno per tante ragioni, non ultima la necessità dello Stato di reperire sempre più fondi attraverso il sistema fiscale.

In un contesto di questo tipo, ci chiediamo qui, è realistico pensare che il sistema di finanziamento pubblico allo spettacolo possa ancora continuare a lungo sotto forma di elargizioni in contanti? Le stesse amministrazioni locali, e tra queste la Regione Lombardia che ha voluto questo convegno, sembrano aver acquisito la consapevolezza della necessità di trovare forme di sostegno pubblico alternative alla attuale prassi dei trasferimenti finanziari.

L’unica via di uscita possibile, ci pare, potrebbe essere quella di finanziare la spesa per la cultura con gli incentivi fiscali.

Ce ne vogliamo occupare oppure vogliamo lasciare che le cose seguano inesorabilmente la strada su cui sono avviate? Perché quella strada, piaccia o no, è la privatizzazione totale. E' la via neo-liberista al welfare state (immaginatevi con quali risultati per il welfare).

Non so se è chiara la situazione: ai vertici del governo del nostro Paese c'è chi ha già più volte accennato anche alla privatizzazione del trasporto pubblico... (vi ricordate Paolo Grassi? Il teatro da considerare servizio pubblico come la metropolitana e i vigili del fuoco. Se oggi viene messo in discussione proprio quel termine di paragone stiamo a posto con l'idea di teatro come servizio pubblico, no?)

Qualcuno potrebbe anche portare ottime argomentazioni a sostegno di questa ipotesi.

Ma se noi consideriamo ancora valida l'idea di teatro come pubblico servizio, non possiamo non evidenziare che il privato, quando investe, lo fa in un'ottica necessariamente di breve o al massimo medio periodo (e non potrebbe fare altrimenti, ci mancherebbe); insomma, il privato non può permettersi di investire nel lungo periodo (intendo con uno sguardo ai prossimi cinquant'anni); solo uno Stato può essere nelle condizioni di fare reali investimenti sul futuro, magari (auspichiamo qui) uno Stato che abbia la consapevolezza che il più importante investimento per il futuro non è tanto quello che può essere fatto oggi sul tessuto produttivo, bensì è quello che ha a che fare con il sistema di istruzione e di educazione dei cittadini (ivi compreso il teatro), puntando con tali investimenti a formare cittadini che in quel futuro (tra cinquant'anni) possano avere le conoscenze e le competenze che in quel momento serviranno per produrre (certamente anche nel campo dell'arte, e del teatro) tutto ciò che in quel momento ci servirà, ci sarà utile, riterremo importante (sia a livello materiale sia a livello spirituale).  

Le logiche che sono sottese oggi al governo del teatro italiano, l'ho già scritto, guardano quasi esclusivamente al passato. Il passato è ovviamente fondamentale, tanto che vi sono senz'altro enti che specie in virtù del loro ruolo storico, a partire dalle funzioni determinanti svolte dal punto di vista artistico, a partire dal superamento dei condizionamenti storici che costringevano a una posizione di retroguardia il nostro sistema teatrale, dovranno continuare a godere, anche più di quanto accade oggi, di consistenti contributi economici da parte della collettività.

Ma quel che manca davvero è una idea di investimento sul futuro. Come già scritto qui (punto 3), il sistema teatrale italiano non potrà che continuare a trovarsi in una situazione di stallo finché persisteranno le attuali logiche di gestione del Fondo Unico dello Spettacolo, che guardano nei fatti sempre e solo al passato.








venerdì 30 novembre 2012

E' la domanda che genera l'offerta

Post veloce.

Il 28 novembre sono stati presentati i I dati Siae sull'attività di spettacolo in Italia nel primo semestre 2012.
La SIAE così sintetizza: "In crescita l'offerta di spettacoli, flessione degli ingressi".


A quanto pare vanno benissimo le mostre:  spesa del pubblico +109,56% e volume d'affari +103,50%.
Reggono anche sagre, feste, ecc.: volume d'affari +13,81%.


Per le attività teatrali questa è la sintesi:


"Il comparto delle attività teatrali è caratterizzato da forti flessioni: spesa al botteghino (-5,68%); spesa del pubblico (-7,97%); volume d'affari (-6,60%) e ingressi (-1,24%). In aumento solo l'offerta di spettacoli (+1,79%)"


Dunque: i dati dicono che è aumentata l'offerta ma è calata la domanda.


Commenti?

Basta rileggersi Keynes e stamparselo bene in testa: non è l'offerta che crea la domanda (come sosteneva la legge di Say, che qualcuno ancora oggi sembra prendere per buona), ma è la domanda che genera l'offerta (J.M. Keynes, Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, libro I, cap. III)

Ricordate chi fu a progettare l'Arts Council? Fu John Maynard Keynes. Sì, sempre lui, il grande economista.
E ricordate nell'ambito di quale ministero? Il Ministero dell'Educazione (anche in Francia fu così, semmai rileggete qui, al punto 1 e passim) 

Logica stringente: il ministero dell'educazione, per definizione, si preoccupa anzitutto di educare i propri cittadini al teatro, e all'arte in genere. 
Si occupa di quella che sarà domanda! Di formare cittadini che domanderanno teatro.


Da noi non è stato il Ministero dell'educazione o dell'istruzione ad occuparsi in origine del sostegno pubblico al teatro. Ovviamente l'imprinting è sempre fondamentale...

C'è un disperato bisogno di occuparsi molto di più della domanda e meno dell'offerta (come già detto qui, al punto 5 e relative note: Recuperare un progetto pedagogico, restituire il teatro agli artisti)






P.S. "l'unico settore che mostra un andamento generalmente positivo è la lirica (spettacoli +4,84%; ingressi +12,68%; spesa al botteghino +11,18%; spesa del pubblico +11,27% e volume d'affari +11,27%)"
Questo è un caso in cui agiscono ancora tanti fattori a sostegno della domanda, compresa la componente estera... Ma non è tutto oro quel che luccica. Vedremo di parlarne un'altra volta.



martedì 27 novembre 2012

Il titolo di questo blog


Ovviamente mi ero dimenticato la cosa più importante (tant’è che ho appena finito di darmi del “pirla” e rimedio subito).
Come alcuni dei lettori già avranno intuito, il titolo di questo blog riprende il famoso articolo di Paolo Grassi: Teatro, pubblico servizio.
Io ci ho aggiunto solo il punto interrogativo. Non so proprio il perché, mi è venuto istintivo.
Al lavoro, realizzato su più fronti, per il rinnovamento del repertorio Grassi aveva progressivamente affiancato riflessioni sulla urgente questione del rinnovamento strutturale del teatro italiano. L’articolo venne pubblicato il 25 aprile 1946 sull’«Avanti!». Grassi vi auspicava l’istituzione di teatri comunali a gestione municipale. L’intervento è senz’altro il manifesto più compiuto di una serie di riflessioni condotte da Grassi a partire dall’immediato dopoguerra. Non si trattava di per sé di idee rivoluzionarie. Già Guido Salvini, per esempio, aveva presentato nel 1927 al comune di Milano un progetto di teatro municipale. Ma di certo l’auspicio che il teatro venisse concepito anche in Italia come una necessità nazionale, un pubblico servizio «alla stregua della metropolitana e dei vigili del fuoco», da sostenere con risorse e logiche differenti rispetto alle paternalistiche sovvenzioni fasciste, non rischiava più di essere solo uno dei tanti proclami senza esito. Grassi riportava a coscienza problemi e possibili soluzioni in un momento che si annunciava fertile, specie a Milano, dove il neosindaco socialista Antonio Greppi, drammaturgo, prometteva una attenzione privilegiata alle faccende del teatro.

Comunque vi allego qui il fondamentale articolo.
Tanto vi dovevo.


Teatro corporativo?

Paolo Grassi, Teatro Corporativo?, in "Sipario", gennaio-marzo 1948, pp. 79-80.
(Tanto per portare un piccolo documento a quelli che pensano che il sistema delle sovvenzioni lo abbia voluto così proprio Paolo Grassi).
Ho fatto più volte l'esperimento a lezione, leggendone alcuni punti senza dire l'autore e la data di pubblicazione. I più svegli pensavano gli avessi letto un pezzo di Alessandro Baricco.
Se proprio volete poi posso aggiungere un post di commento... (comunque qualcosa potete già leggere qui, al punto 3)

lunedì 26 novembre 2012

Economia dello Spreco ed Economia della Miseria, di Gabriele VACIS

Ricevo da Gabriele VACIS, che ringrazio, e pubblico qui il suo contributo sulle economie dello spreco e della miseria.




Pompa magna o necessità. In mezzo niente. Girano parole che per un po’ tengono banco. Qualche tempo fa, nei circoli teatrali, uno spettacolo poteva essere “intrigante”, per dire che non era riuscito del tutto, ma aveva un certo non so che. Poi arrivò “forte”. Non nel senso di sei forte, papà! Ma nel senso di duro, denso di significato. Ultimamente va forte l’aggettivo “necessario”. E’necessario il teatro fatto da non attori. Possono essere barboni o prostitute, extra comunitari, carcerati, animali… Oppure deve raccontare di catastrofi, di mafia, di malattia mentale… Ecco: questo è il teatro necessario. Precisazione: il tono ironico che mi scappa non è canzonatorio. Cioè: a me piacciono molto certi spettacoli necessari. Lo dico anch’io, ogni tanto: questo spettacolo è necessario. Spero addirittura di averne fatto qualcuno. E’ che quando si abusa delle parole mi scappa l’ironia… E parlo molto male di prostitute e detenuti da quanto mi fa schifo chi ne fa dei miti… Quando è moda è moda… Cantava Giorgio Gaber.  Ecco: comincio a provare fastidio per certe parole quando diventano moda. E non servono più a distinguere, a precisare. Servono ad omologare. Così c’è in giro molto “teatro necessario”. Più di quello che serve.
E poi c’è la pompa magna. La pompa magna è una delle possibilità del teatro. Grandiosità, sfarzo, magnificenza è, qualche volta, quello che vogliamo vedere. La pompa magna è il ricordo di quando la società si rappresentava nel teatro. Dal settecento ad oggi, gli attori stanno sul palcoscenico, ma anche gli spettatori stanno nei palchetti. Da sempre a teatro si va per vedere ma anche per “farsi vedere”. Oggi per farsi vedere si va in televisione, of course, ma la pompa magna, l’esposizione del meglio di sé, è bello che rimanga nel DNA del teatro. Anche qui, però, c’è il rischio dell’abuso. La pompa magna da sola diventa vuota ostentazione. Bisognerebbe che il teatro riuscisse ad essere, insieme, pompa magna e necessità. Qualche volta ci riesce. Ma nel teatro di oggi la pompa magna e la necessitàsono i nomi di due circoli abbastanza ristretti che difendono le loro poetiche e le loro abitudini di clan. In fin dei conti quello che difendono è il loro diritto ad esistere fuori dal mercato. Il teatro della pompa magna è in genere prodotto dai teatri stabili pubblici che hanno bilanci enormi rispetto a tutti gli altri. Questo genera due economie: l’economia dello spreco e l’economia della miseria.
Spreco o miseria. In mezzo niente.
L’economia dello spreco mette milioni su spettacoli che vedono in pochi e hanno scarso impatto sul dibattito culturale (a volte non vanno in scena nel totale disinteresse della “società civile”). L’economia della miseria coinvolge tanta gente non pagata, che inventa stratagemmi come seminari, che sono prove mascherate, per ridurre costi di produzione già all’osso.
Tutte e due sono economie surreali. Non hanno alcun rapporto costo beneficio. Il teatro, per definizione, è fuori del mercato. Ci ha messo tanti anni ad accettare questa verità senza umiliazione. Non è riproducibile, e quindi difficilmente mercificabile. In un mondo dominato dal mercato questo è un valore. E’ un valore perché, senza l’assillo del profitto si può fare ricerca, innovazione. La ricerca e l’innovazione devono svolgersi nel raccoglimento e nella concentrazione dei piccoli numeri. Ma poi i risultati della ricerca devono essere proiettati nel mondo. E perché il mondo ti ascolti devi essere autorevole e farti capire. Questione di equilibrio. La nuova presidente del Teatro Stabile, Evelina Christillin, ha esordito con una parola: eccellenza. Bello. Il teatro della città dovrebbe perseguire l’eccellenza. Ma cos’è l’eccellenza? La Christillin lo sa bene perché è una delle persone che hanno fatto il miracolo olimpico. Le Olimpiadi hanno fatto il botto perché hanno coniugato lo show mondiale e il genius loci, perché hanno messo insieme grandi artisti e migliaia di volontari, perché hanno trovato l’equilibrio tra la pompa magna e la necessità, tra lo spreco e la miseria. L’eccellenza è soprattutto equilibrio. Chissà che dopo il miracolo olimpico, ad Evelina Christillin e al suo nuovo consiglio d’amministrazione, non riesca anche il miracolo teatrale. Buon lavoro.


                                               Gabriele Vacis

9 settembre 2007

domenica 25 novembre 2012

Aumentare i fondi pubblici al teatro col Credito di imposta trasferibile

Questa roba non so ancora se può funzionare. Sono convinto di sì, ma i dettagli vanno studiati bene, con economisti possibilmente neo-keynesiani (l'altra parrocchia non credo proprio che ci arrivi).
L'idea mi è venuta sentendo quel geniaccio di Warren Mosler al summit MMT dello scorso ottobre (vedremo di discuterne, della mmt, nel bene e nel male).

Ne ho parlato un po' in giro e ho avuto buone reazioni anche da addetti ai lavori. L'ho un po' spiegata anche ad Alessandro Baricco, che ne è rimasto entusiasta e ne ha poi parlato qui (proprio in conclusione della conferenza).

L'idea a spanne sarebbe questa:


Il FUS viene aumentato del 30% al fine di accogliere nuovi soggetti, quelli che ora stanno nell'economia della miseria (il copyright è di Gabriele Vacis). Quel 30% in più deve andare a questi nuovi soggetti e non spartito tra quelli che già sono finanziati.

Qualcuno degli amici miei so già che mi risponderà inorridito: ma come, aumentiamo il FUS invece di abolirlo?

Va be' dico FUS per non dover ora stare anche a proporre altro, e poi mi tengo cauto. In prima battuta lasciamo tutto come è ma soprattutto facciamo in modo di far comunque entrare nel meccanismo gente che ora è costretta a fare quattro lavori per tirare avanti con l'attività teatrale. 

Comunque, la sostanza della proposta è: il fondo ministeriale per lo spettacolo dovrà essere erogato per 1/3 in contanti (questo può servire soprattutto ai nuovi soggetti per avere un minimo di fondi per far partire la produzione) e 2/3 in credito di imposta trasferibile. [SIA CHIARO, QUI ORA STO LAVORANDO SULL'IDEA E NON ANCORA SU DATI PRECISI, POTRA' ESSERE ANCHE 1/2 E 1/2 o 3/5 e 2/5, ABBIATE PAZIENZA E VE LO SAPRO' DIRE]

Cosa vuole dire? Che i teatri si trovano con 1/3 dei soldi contanti che ricevono oggi, il resto della cifra è detassazione. Ma un particolare tipo di detassazione, che è il credito di imposta trasferibile: vuol dire che io soggetto che ho 100 euro di credito di imposta, posso usarli sì per pagare le mie imposte, ma posso anche trasferire questo credito a un terzo (che so, un fornitore, che invece di pagare solo in contanti pago anche col credito di imposta, che poi questo fornitore userà per pagare le proprie tasse, le tasse dei dipendenti o anche userà per pagare a sua volta altri fornitori e via dicendo).

La stessa logica andrebbe seguita a livello locale (cioè comuni province e regioni dovrebbero finanziare allo stesso modo)

Questo sistema a mio parere introduce parecchi vantaggi:
1) Si esce finalmente dalla logica della "mancia" di matrice fascista
2) Lo Stato e gli enti locali devono distribuire molti meno soldi contanti. Ergo si tiene in cassaforte un gruzzolo (che un po' rende pure di interessi), che andrà poi a compensare  l'anno successivo i minori introiti di tasse (sostituiti dal credito di imposta). Sotto spiego come si pareggia il maggior credito rispetto ai contanti versati oggi.
3) Si crea un circolo virtuoso. I soggetti finanziati sono incentivati a sprecare meno (avendo in mano meno contante), a trovare modi per aumentare gli introiti (sui quali pagare le tasse col credito di imposta). 
I soggetti sono poi incentivati a rivolgersi a fornitori interessati a ricevere come forma di pagamento un credito di imposta (soprattutto imprese locali nel caso di credito di imposta ricevuto da enti locali, imprese italiane nel caso di credito di imposta ricevuto dal FUS. O al limite anche a imprese estere che siano interessate poi a pagare con credito di imposta fornitori italiani e così via). 

Tutto ciò che conseguenze ha? Maggiore efficienza, minori sprechi e, soprattutto, incentivo all'economia.
Facciamo un esempio micro, su un comune e un teatro (ma poi la cosa in grande vale a livello nazionale).
Prendiamo una grande città del nord (immaginatevene voi una) e un grande teatro stabile di quella città del nord (fate sempre voi).
Poniamo sia 1 milione di euro il contributo che il Comune dà al Teatro.
Saranno 333.000 euro in contanti e 666.000 euro in credito di imposta trasferibile.
Con quei 666.000 euro di credito di imposta quel teatro può:
1) pagare le addizionali comunali IRPEF di tutti i suoi dipendenti residenti in quel Comune e pagare tutte le tasse che deve al Comune.
2) pagare una quota degli straordinari dei suoi dipendenti residenti nel Comune (che poi li potranno usare per pagare la tassa dei rifiuti, l'IMU, le multe... insomma, qualsiasi tassa comunale i dipendenti devono pagare, ma anche servizi forniti da imprese locali interessate a ricevere credito di imposta come pagamento.)
3) pagare, anche solo con una quota parte della spesa, fornitori locali (interessati quindi ad avere un credito di imposta con cui pagare le tasse comunali). Tutto questo va a incentivare l'economia locale. Mettiamo che quel Teatro debba cambiare dieci serramenti per dieci mila euro. Non ha più in cassa molti contanti da spendere bensì molti crediti di imposta. Potrà pagare solo 5.000 euro in contanti e 5.000 con credito di imposta. Quindi invece di dare l'incarico al serramentista della città vicina (magari amico di amici) sarà incentivato a chiedere preventivi a serramentisti del Comune dove opera (che devono poi pagare le tasse a quello stresso comune e hanno magari dipendenti che devono a loro volta pagare le tasse al comune). Non più allora, magari, amici di amici ma impresa locale che fa il miglior preventivo. E dunque alla fine cosa succede? Il serramentista di quel Comune fattura  10.000 euro che non avrebbe fatturato. Sono 10.000 euro in più di imponibile... Su cui si calcola il gettito delle tasse comunali. Applica la stessa logica a tutte le spese simili di quel grande teatro in un anno. Risultato: alla fine aumenta il gettito comunale. Il comune incassa di più perché anche l'economia locale è cresciuta.

Passate ora a livello macro e fate lo stesso ragionamento a livello nazionale. In aggregato l'economia nazionale che gravita attorno al settore performing arts viene incentivata e di conseguenza aumenta il gettito. Per questo è pensabile, grazie al credito di imposta trasferibile, di innalzare del 30% il FUS. Perché l'anno successivo si potranno incassare più tasse grazie all'aumento del gettito.

Ecco, se volete rifate lo stesso ragionamento per tutta l'economia italiana, non solo per il settore spettacolo o cultura. Con il credito di imposta trasferibile è possibile incentivare la crescita di tutta l'economia italiana senza anticipare un solo euro sonante. 
E questa è una roba keynesiana (che Monti proprio non può capire, o fa finta di non capire). Il PIL è dato dalla somma di: CONSUMI, INVESTIMENTI E SPESA PUBBLICA. Sta scritto in tutti i manuali appena decenti di economia politica. Se diminuisci la spesa pubblica (e nel contempo non abbassi anche le tasse - da noi le aumentano, figurarsi) non puoi fare la crescita (che rimane invece "dentro di noi", come dice Monti Mario). Visto che l'Euro non è nostro ma delle banche, mentre le tasse sono nostre e non delle banche, allora la spesa pubblica la puoi aumentare con lo strumento del credito di imposta trasferibile. E così di conseguenza aumenta il PIL (e dunque i consumi dei cittadini e pure gli investimenti) e alla fine aumenta pure il gettito. Si chiama moltiplicatore keynesiano, ed è uno strumento che usano tutti (tranne Monti), pure il Fondo Monetario Internazionale, per fare previsioni sul PIL di un Paese [se volete fatevene una idea leggendo questo post nel blog di Alberto Bagnai, che poi a mio parere, ma non solo, è er mejo a proposito di politica economica che potete trovare in rete in lingua italiana]


Politiche della cultura e teatro come “pubblico servizio” Intenzioni delle origini e slittamenti di senso


In uscita in «Biblioteca Teatrale» e anticipato (con qualche censura!) in rivista on line,  anche in inglese con il titolo Politics of Culture and Theatre as public service. Intentions of the Origins and Shifts in Meaning, «Prospero European Review. Theatre and Research», II (2011).]


1. Teatro “pubblico servizio”. Dalla democratizzazione dell’accesso al deficit strutturale

L’idea di un teatro inteso come servizio pubblico è una della maggiori conquiste del secondo Novecento nell’ambito delle performing arts.
Al di là delle peculiarità nazionali, fu indubbiamente l’avvento del welfare state a essere decisivo nel definire l’intervento degli Stati a sostegno di un’attività considerata non riconducibile a paradigmi economici convenzionali.
L’intervento dello Stato in materia di spettacolo dal vivo ha oscillato, nel corso delle differenti epoche storiche, tra deciso disinteresse da un lato e intervento attivo dall’altro. In questo secondo caso, con giustificazioni variabili a seconda delle epoche, basate di volta in volta su istanze politiche (a volte con finalità di esplicita celebrazione del potere), sociali, pedagogiche, etiche e talora estetiche.
Nell’Europa del secondo dopoguerra il riconoscimento (non così scontato, almeno in certi contesti) delle valenze educative, sociali e culturali del teatro è andato di pari passo con il progressivo intervento riequilibratore o sussidiario delle risorse pubbliche a favore di una speciale tipologia di lavoro che, pur fondato su una base materiale dai non indifferenti costi economici, si ritiene offra un bene immateriale che difficilmente ha la possibilità di inserirsi virtuosamente entro le logiche di mercato.
Vi è sottesa, come si è accennato, una piena incorporazione del teatro entro le logiche del welfare: bene irrinunciabile per la collettività, che si deve dunque rendere accessibile alla collettività attraverso il sostegno della mano pubblica. Famose in proposito le definizioni di Paolo Grassi e Jean Vilar.

Ragioni culturali ma soprattutto ragioni economiche tengono lontano il popolo dal teatro, mentre il teatro, per la sua intrinseca sostanza, è fra le attività la più idonea a parlare direttamente al cuore e alla sensibilità della collettività, mentre il teatro è il miglior strumento di elevazione spirituale e di educazione culturale a disposizione della società. Noi vorremmo che autorità e giunte comunali, partiti e artisti si formassero questa precisa coscienza del teatro, considerandolo come una necessità collettiva, come un bisogno dei cittadini, come un pubblico servizio alla stregua della metropolitana e dei vigili del fuoco, e per questo preziosissimo pubblico servizio nato per la collettività, la collettività attuasse quei provvedimenti atti a strappare il teatro all’attuale disagio economico e al presente monopolio di un pubblico ristretto, ridonandolo alla sua vera antica essenza e alle sue larghe funzioni[1].

Dieu merci, il y a encore certains gens pour qui le théâtre est une nourriture aussi indispensable à la vie que le pain et le vin. C’est à eux, d’abord, que s’adresse le Théâtre National Populaire.
Le T.N.P est donc, au premier chef, un service public. Tout comme le gaz, l’eau, l’électricité. […] Notre ambition est donc évidente: faire partager au plus grand nombre ce que l’on a cru devoir réserver jusqu’ici à une élite. Enfin la cérémonie dramatique tire aussi son efficacité du nombre de ses participants[2].

Si tratta di parole ormai entrate nel vocabolario comune del teatro. Non sarà però inutile sottolineare che, nel contesto in cui venivano pronunciate, esse avevano una valenza provocatoria, certamente programmatica nel loro definire il ruolo che il teatro avrebbe dovuto ricoprire nelle democrazie uscite dagli sconvolgimenti della seconda guerra mondiale. In Italia, addirittura, la proposta formulata da Grassi nel 1946 non poteva che rasentare l’utopia. È facile non rendersene conto ora, poiché poco più di un anno dopo (il 14 maggio 1947) veniva inaugurato il Piccolo Teatro di Milano, il primo teatro stabile pubblico italiano; ma lo stesso travagliato percorso istituzionale che diede vita a quell’ente non può che farci riflettere su come l’idea di teatro come servizio pubblico fosse alla fine degli anni Quaranta tutta da conquistare nella sua concretezza: delimitava un terreno di battaglia dagli incerti confini e con molteplici forze in campo[3].
Senza ora poterci dilungare in un percorso storico a livello europeo, possiamo ritrovare in quasi tutti i paesi principî comuni (anche se con esiti spesso molto diversi) che sostanziarono la politica culturale nell’ambito dell’arte performativa a partire dal secondo dopoguerra.
È importante ricordare il contesto in cui si situavano gli interventi degli Stati in materia teatrale, le condizioni di dissesto in cui si trovavano o (rischiavano di venirsi a trovare) le arti, specie le arti performative, a causa degli eventi bellici. Si trattava dunque della necessità urgente di rilancio o sostegno a un settore, quello della vita artistica, che avrebbe contribuito a riattivare o, nei casi più lungimiranti, a tener viva una identità e unità civica, una communitas, messa seriamente in discussione dagli sfasci della guerra. In alcuni casi (come in Italia, per esempio) l’iniziativa veniva ‘dal basso’, erano gli artisti a sollecitare le istituzioni a farsi carico della vita culturale del Paese, in altri casi era la politica a intervenire in prima istanza, pur a volte senza una precisa coscienza, da subito, del ruolo preciso che uno Stato democratico e liberale avrebbe dovuto avere nel campo della cultura. Vi era del resto, in questi Paesi, anche una perplessità di fondo, che teorizzava in taluni casi persino il totale arretramento del momento politico dall’ambito della cultura al fine di scongiurare quei disegni carichi di implicazioni autoritarie che, tra le due guerre, avevano caratterizzato quegli Stati che, rompendo con la tradizione dello Stato liberale, avevano teorizzato l’elevazione spirituale delle masse rendendo a esse accessibili gli strumenti della cultura borghese.
Fu una questione ampiamente dibattuta, tra le due guerre, in Gran Bretagna. L’avvio della Seconda Guerra Mondiale fu, alla fine, decisivo per l’avvio di una politica di sostegno pubblico alle arti. A partire dal dicembre 1939, infatti, venne istituito il Council for Encouragement of Music and Arts (CEMA), finalizzato a garantire la persistenza delle attività musicali, teatrali, artistiche e garantire l’accesso a esse alla popolazione anche in tempo di guerra. Si trattava, nelle intenzioni del Ministero dell’educazione (suo promotore e finanziatore), di un istituto temporaneo, adatto ai tempi di guerra. Ambigua agli inizi fu l’oscillazione tra una idea di ‘servizio sociale’ finalizzato all’intrattenimento della popolazione (ivi compresa quella extra-urbana e della provincia) e un’altra intesa come sostegno al lavoro degli artisti professionisti e agevolazione dell’accesso potenziale al loro lavoro da parte di tutti gli strati sociali. Verso questa più precisa istanza confluirono le linee di politica culturale britannica almeno a partire dall’aprile 1942, quando il presidente del CEMA, R.A. Butler, ne affidò la direzione a John Maynard Keynes, con l’obiettivo di gettare le basi per qualcosa che sarebbe dovuto diventare istituzionale e strutturale nella vita culturale britannica[4]. Quell’istituzione, come è ben noto, sarà l’Arts Council of Great Britain, che ancora oggi si occupa del supporto all’attività artistica nel Regno Unito. Avremo modo di tornare sull’argomento.
Anche in Francia rileviamo all’indomani della Liberazione un deciso intervento dello Stato (a confronto con quello che accade in Italia nello stesso periodo) a favore del teatro inteso come attività di interesse pubblico, che faceva certamente tesoro delle concrete esperienze (sebbene svincolate da qualsiasi sostegno pubblico) di Jacques Copeau e dei suoi allievi poi confluiti nel Cartel, oltre che delle più recenti proposte di Jeune France. Ma andrà sottolineato anche come in Francia una tradizione secolare, che possiamo far risalire, se non alla istituzione della Comédie Française, certamente alla Rivoluzione francese, vedeva nel teatro una potente scuola laica per cittadini, popolare dunque per suo intrinseco statuto e di interesse nazionale[5]. L’esito concreto di queste istanze si ebbe già all’indomani della Grande Guerra, con l’istituzione del Théâtre National Populaire nel 1920, in seguito portato a compiutezza esemplare a partire dal 1951, con la nomina di Jean Vilar a suo direttore da parte di Jeanne Laurent, Sous-Directeur des Spectacles et de la Musique tra 1946 e 1952, nume tutelare della decentralisation francese[6].
È dunque innegabile che l’idea di teatro come servizio pubblico sia, a livello europeo, un modello storico preciso, nato per rispondere a precise esigenze, con obiettivi definiti e circostanziati.
Come ha scritto in un contributo fondamentale Robert Abirached (pur riferendosi al caso specifico francese, ma con considerazioni in questo caso generalizzabili), all’indomani della Seconda Guerra Mondiale le sovvenzioni statali al teatro,

[…] comme l’indiquent leur modicité même et les procédures qui les accompagnent […], elles sont accordées en fonction d’un objectif clairement affiché, qui vise à transformer le fonctionnement de l’outil théâtral pour conquérir de nouveaux spectateurs. Pour l’État et leurs bénéficiaires, elles ne sont, ni plus ni moins, que le prix à payer pour l’élargissement et la démocratisation du public, étant entendu que, pour le reste, le secteur public naissant doit travailler à ses risques et périls, en tirant ses recettes une bonne moitié des ressources dont il a besoin afin de se développer conformément à sa double ambition, artistique et civique. Mais voici qu’une trentaine d’années plus tard, tout le monde convient que le théâtre est devenu une activité structurellement déficitaire.[7]

Cosa è accaduto dunque nell’arco di qualche decennio? La risposta è apparentemente semplice e ben nota, tanto che la si trova in tutti i buoni manuali di organizzazione teatrale: a differenza dell’economia moderna, che vede decrescere progressivamente i costi di produzione a livello industriale, la produttività teatrale rimane ancorata a un modello economico arcaico, in cui la quantità di lavoro non può essere ridotta. È la famosa tesi di Baumol e Bowen del 1965, che diede per altro un contributo decisivo all’istituzione del National Endowment for the Arts negli USA[8]. La lievitazione progressiva dei costi, anche tecnici, risulta tanto più marcata quanto più il teatro si pone entro logiche di concorrenza che portano a spendere sempre di più per vedettes e tecnologie costose.
Vi è stato però un paradosso, nota Abirached: questa spirale dei costi specie a livello produttivo, invece di investire soprattutto il settore privato si è fatta sentire maggiormente nel teatro sovvenzionato, «come se le sovvenzioni abbiano avuto come effetto principale una accelerazione nell’ascesa  dei costi»[9], che ha avuto come contraltare una espansione dei finanziamenti proprio negli anni Settanta / Ottanta.
Non è una questione di poco conto, poiché da un’idea di teatro come pubblico servizio che giustificava l’intervento dello Stato ai fini di democratizzazione dell’accesso al teatro di qualità attraverso una politica di prezzi accessibile, si è passati all’idea, completamente diversa, della necessità di intervento della mano pubblica a favore di un settore considerato strutturalmente deficitario. Basta oggi verificare la sostanziale inaccessibilità a livello di prezzi dei teatri lirici in Italia per rendersene conto.
Già solo questo slittamento dovrebbe mettere in guardia dall’utilizzare ancora oggi, quasi fossero delle formule, le idee di teatro come pubblico servizio così come elaborate negli anni Cinquanta. Esse rischiano di risultare obsolete, lontane dalla realtà. Una realtà che è radicalmente mutata, anche a livello socio-antropologico, rispetto a quelle di sessant’anni fa.
Enunciare queste formule, senza farne oggetto di critica in profondità, rischia infatti oggi di risultare controproducente per il teatro stesso, specie in un contesto in cui risulta difficile l’oggettività di ciò che debba essere o non essere di dominio pubblico. Se tale oggettività è in discussione per quanto riguarda l’acqua, figuriamoci quanto lo sia, agli occhi dell’opinione pubblica, per quanto riguarda le attività teatrali.

Rien n’est moins évident que la conception du théâtre comme une activité de service public, qui nous est pourtant devenue familière depuis une cinquantaine d’années. […] elle sert à justifier aujourd’hui, aux yeux de beaucoup, le poids et l’omniprésence de l’aide apportée par l’État à l’exercice du théâtre, sans qu’on puisse apercevoir très clairement le contours du consensus dont elle est l’objet. En termes plus brutaux, qu’est-ce qui fonde l’intérêt de l’État pour le théâtre, au nom de l’ensemble de citoyens, aujourd’hui que cet art n’est plus au centre de notre société?[10]


2. Economie dello spreco e della miseria. Un caso italiano?

Negli ultimi anni è del resto indubbia la crisi di fiducia nei confronti dello spettacolo dal vivo, in particolare per quanto concerne le risorse pubbliche destinate a un settore che per molti ricopre mere funzioni di loisir. Soprattutto, l’opinione pubblica fonda le proprie motivazioni di sfiducia, trovando facile sponda anche in talune forze o individualità politiche, proprio nelle grandi istituzioni culturali, spesso rappresentate come fonte di sprechi.
Il mondo del teatro e della politica che di teatro si occupa non può più, a maggior ragione in una fase di crisi come quella che stiamo vivendo, far finta che il problema non esista o che non sia risolvibile dicendo che così è, perché il teatro è strutturalmente deficitario.
Quel che da diversi anni è in corso è un processo di delegittimazione progressiva del teatro, in cui la componente dello spreco (presentato spesso come spreco non solo di risorse finanziarie, ma anche di professionalità e di potenzialità) è solo la parte più visibile, anche perché si tratta dell’unico motivo per cui i giornali, almeno in Italia, sbattono in prima pagina le questioni teatrali, ben sapendo di trovare adeguata audience nell’opinione pubblica.
Ma questa è solo la punta dell’iceberg, è il portato ultimo di una sottile politica culturale che l’Italia si porta in eredità da tanto tempo, il cui epifenomeno sono sì, in certi casi, gli sprechi, ma la cui conseguenza fenomenica davvero rilevante è la progressiva perdita di identità del teatro.
L’intervento dello Stato a sostegno delle attività teatrali si giustificava, con una certa nettezza anche a livello progettuale nell’immediato secondo dopoguerra e negli anni Cinquanta specie per quel che riguarda il sostegno alla stabilità delle istituzioni, «a garanzia della continuità, della coerenza, dell’intensità, del rigore dei processi artistici». Sembrano profetiche le parole di chi, oltre vent’anni orsono, diceva che «contro questa stabilità, delineata e costruita negli anni Cinquanta, aprendo una discontinuità nella linea della più deteriore tradizione del teatro girovago italiano, del nomadismo di guitti e giullari, congiurano gravi tendenze involutive che, di fatto, determinano un arretramento sul versante della precarietà artistica, economica, psicologica dell’operatore teatrale»[11].
È indubbio che oggi i giovani teatranti (seppur giovani quarantenni) vivano in condizioni di lavoro che per la loro precarietà, finanche per l’economia della miseria su cui si sorreggono, risultano molto più avvicinabili a quella guittesca dell’Ottocento piuttosto che a quella delle due generazioni che li hanno preceduti.


3. Dal sostegno dell’arte al sostegno delle strutture. Un sistema in panne

Le questioni relative al mantenimento, riduzione o reintegri del Fondo Unico per lo Spettacolo (FUS) sono, a tutt’oggi, assolutamente irrilevanti per il futuro del teatro italiano.
Non è una provocazione, ma un dato di fatto: da oltre dieci anni il Fondo Unico per lo Spettacolo non ammette al finanziamento nuovi gruppi teatrali, i giovani sono tagliati fuori (gli ultimi ingressi risalgono alla fine degli anni Novanta, come per esempio il progetto URT di Jurij Ferrini e la compagnia ATIR di Serena Sinigaglia). Il teatro italiano non ha futuro se il fondo che il nostro ministero della cultura (o come si è chiamato, si chiama o chiamerà) mette a disposizione del teatro guarda sempre e solo al passato.
In Italia il blocco o la riduzione progressiva (in termini reali) dei fondi pubblici destinati al teatro ha prodotto un’impasse nel sistema. Negli anni in cui questo capitolo di spesa cresceva, attraverso la prassi delle circolari ministeriali era stato possibile inquadrare i nuovi fermenti del teatro italiano entro gli ingranaggi del sostegno pubblico. Quando, a un certo punto, la crescita di fondi si è bloccata non è più stato possibile accogliere nuove istanze di finanziamento. Infine, con la decrescita progressiva dei fondi degli ultimi dieci anni si è proceduto a una distribuzione delle risorse attraverso la logica dei tagli lineari, divenuta poi pratica diffusa in tutto il comparto pubblico a causa della grave crisi finanziaria del nostro tempo.
Tutto questo pare fondato su una logica ineluttabile, dal momento che i governi italiani degli ultimi dieci anni non sono stati in grado di aumentare questo capitolo di spesa. E ora, certo, pare davvero impossibile un cambio di rotta. Così, purtroppo, chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori.
Tuttavia, la particolare congiuntura economica di questi ultimi anni ci consente ora di osservare la condotta di altri Paesi alle prese con il problema della riduzione dei budget da destinare alle cosiddette attività culturali. Sì, perché purtroppo oggi i tagli alla cultura e al teatro non sono più una prerogativa italiana (solo lo stato culturale francese pare salvarsi su questo terreno[12]). L’Arts Council, per esempio, ha subito un taglio complessivo del 5% nel corso della stagione 2009/2010 e un ulteriore drastico taglio dei fondi per i quattro anni successivi. Si passerà infatti dagli attuali 449,5 a 349 milioni di sterline nel 2014 (circa 400 milioni di euro al cambio attuale, poco meno dell’ultimo FUS, dopo il reintegro pagato con un aumento ad hoc delle tasse sulla benzina).
Il 30 marzo 2011 l’Arts Council England ha reso nota la ripartizione dei fondi per il triennio 2012-2014.
Nel triennio appena concluso sono state 791 le istituzioni finanziate. Per il successivo triennio riceveranno fondi solo 585 fra queste, cui si aggiungeranno 110 new entries. In tutto, dunque, verranno finanziate 695 istituzioni (su un totale di 1333 richiedenti).
Ben 206, invece, sono stati letteralmente tagliati, non riceveranno più nulla dall’Arts Council. Tra queste spicca il Dartington Hall Trust. Nonostante sia stato stabilmente finanziato negli ultimi decenni, ora ha visto decrescere il contributo assegnato da 600.000 sterline l’anno a 0.
Quali le reazioni di David Francis, direttore del Dartington? Avrà protestato platealmente? Avrà avviato uno sciopero della fame e della sete incatenandosi al suo botteghino?
Niente di tutto questo. Semplicemente ha rilasciato la seguente dichiarazione (che riprendiamo dal «The Indipendent» del 31 marzo 2011): «Siamo rimasti sorpresi dal non aver ricevuto nulla, ma il Dartington è in attività da 80 anni, già da prima che venissero attivati i finanziamenti pubblici; la nostra struttura poi, ha una base di finanziamento misto. Vorrà dire che chi vorrà venire a lavorare da noi dovrà portare anche un po’ di soldi».
Non tutti, certo, hanno mantenuto la calma di Francis.
A noi però interessano le logiche complessive di finanziamento pubblico al teatro seguite in Inghilterra attraverso l’Arts Council. Pur in un contesto di riduzione dei fondi, non vi sono stati tagli lineari. In nessun caso. C’è chi è stato cassato completamente, c’è chi ha subito tagli di circa il 15% (come alcune delle istituzioni più rappresentative: Royal Shakespeare Company, Royal Opera House e National Theatre), ma c’è anche chi ha visto crescere in maniera consistente il proprio finanziamento, come il Barbican Centre (+108%), la compagnia Punchdrunk (+141%), o il Lincoln Arts Trust (+285%).
Come fanno in Inghilterra, viene subito da chiedersi, a prendere (o meglio a poter prendere) questo tipo di decisioni?
Tutto apparentemente molto semplice. La commissione ha lavorato a partire da principi di fondo chiari e trasparenti, senz’altro condivisibili (in quel contesto) per quasi tutti gli addetti ai lavori (e proprio addetti ai lavori, e non certo politicanti di sorta, sono tutti i componenti del direttivo).
Fa un certo effetto, per noi italiani abituati a sentir sempre parlare di tagli lineari, leggere ben in evidenza nel sito dell’Arts Council che il principio basilare su cui si fondano (in questo periodo storico) tutte le scelte è il seguente: «sovvenzioni adeguate alle reali necessità di ciascuna organizzazione, e non ‘tagli uguali per tutti’».
Continuiamo forse ancora a stupirci che in Inghilterra i teatranti che non ricevono più alcun finanziamento non alzino le barricate. Ma il fatto è che davvero tutti (o quasi) condividono i criteri di base su cui lavora l’Arts Council. È fuori discussione, per chiunque lavori in quel contesto, il principio meritocratico di fondo. E fuori discussione sono la trasparenza e l’indipendenza di giudizio dei suoi membri, anche (e soprattutto) nei casi in cui debbano prendere scelte drastiche o dolorose. Si tratta di un dato che è parte integrante della mentalità inglese. E non sarà inutile ricordare che l’Arts Council venne fondato, per volere espresso del suo ideatore, John Maynard Keynes, sul principio della «interposta persona», al fine di slegare la cultura dal condizionamento diretto della politica, e così ridurre quanto più possibile anche i rischi di contiguità opportunistica tra le arti e il potere politico.
È evidente, quel sistema teatrale è nel complesso molto diverso da quello italiano. Il problema è che da noi, specie in un contesto di riduzione progressiva degli stanziamenti, pare non vi sia la volontà di entrare nel merito di una reale riforma strutturale delle sovvenzioni al teatro, che si perpetuano da decenni (se non addirittura dal periodo fascista) secondo logiche che palesemente non funzionano più.
Forse in Italia è ancora troppo forte lo spirito corporativo, che inevitabilmente conduce ai tagli lineari (un po’ meno soldi per tutti), in mancanza di una politica culturale che sia capace di scelte certamente difficili, coraggiose, finanche dolorose, ma che potrebbero essere vitali per il futuro del teatro italiano.
L’Inghilterra forse ci insegna che solo azzerando (o riducendo di molto) i fondi pubblici a chi non li merita, chi lavora bene (o anche solo ha le potenzialità per farlo) potrà avere da subito di più, e così lavorare meglio (e non invece rischiare di dover lavorare peggio, come da noi succede sempre più spesso). Soprattutto, solo in questo modo sarebbe possibile mantenere il sistema davvero aperto alle realtà emergenti, che altrimenti rischierebbero di non poter crescere, o addirittura morire, in un contesto in cui le risorse finanziarie, già di per sé stabili se non in riduzione in tempo di prosperità, tenderanno (almeno nell’immediato futuro) a decrescere inesorabilmente.
L’impasse del sistema italiano non è un destino, ma è dovuta a una precisa scelta di politica culturale, se così la si può chiamare, frutto a mio parere anche di un equivoco relativo alla nozione stessa di teatro come pubblico servizio.
È quello che potremmo chiamare oblio delle buone intenzioni delle origini: i fondi che erano stati pensati per portare a una più alta dignità complessiva il lavoro del teatro, per togliere di mezzo le concrezioni storiche nefaste del sistema produttivo e distributivo di un declinante teatro all’antica italiana, per dare stabilità al lavoro artistico, e così innescare processi creativi virtuosi che portassero a un teatro di qualità accessibile ai cittadini (è questa la vera grande battaglia condotta da Paolo Grassi), ecco oggi quei fondi destinati (per la maggior parte) a sostenere l’Arte, sono diventati fondi molto spesso destinati a sostenere le strutture, gli enti.
Su questo non ci possiamo certo sbagliare se anche Walter Le Moli (che nella sua carriera ha ricoperto svariati ruoli istituzionali nel teatro italiano, tra cui anche la direzione di uno dei più importanti teatri stabili) ha recentemente definito con queste parole «il nocciolo della questione che attanaglia il teatro pubblico italiano»:

[…] vale a dire il peso dell’apparato, che finisce per inibire la produzione. L’apparato e la struttura, nati per supportare l’attività teatrale, sono diventati il terminale, il destinatario e la ragione di esistere delle istituzioni. Eppure esse sono state istituite proprio per produrre teatro, non per pagare gente che il teatro lo tenesse aperto. Un caso emblematico è l’Ente teatrale italiano. Come è riuscita a fallire una struttura che non produceva alcunché e si limitava a ospitare, ricevendo dallo Stato venti milioni di euro, più di qualunque Stabile? Semplice, perché il costo dell’apparato, che va dalla maschera fino al presidente, assorbiva tutto. Questo significa essere usciti dai binari. Ma perché tutto questo lo devono pagare gli artisti? Perché alla fine a pagare dev’essere la sola vera ragione di esistenza di queste istituzioni?[13]

Ecco, la conseguenza diretta di questo stato delle cose è che, in un contesto in cui i tagli dei finanziamenti al teatro (e una loro possibile revisione) vengono contestati con le ragioni dei sindacati, diciamo anche di certe corporazioni, dei posti di lavoro che non possono andar persi nelle istituzioni, i finanziamenti al teatro vengono di fatto trattati come un diritto acquisito. Dopo decenni in cui parti sempre più consistenti dei budget destinati alla produzione venivano messi a gestione, senza che mai nessuno denunciasse o solo considerasse questa diffusa prassi ai limiti della malversazione, pare divenuta impossibile anche una qualsiasi diversa politica culturale nei confronti del sistema teatrale italiano.
Ci vorrebbe un atto di coraggio della politica, ma non un atto di coraggio comunemente inteso nei termini di azione diretta, bensì un atto che sarebbe al contempo il più coraggioso e il più efficace per una politica culturale degna di uno stato democratico e liberale: fare un passo indietro. Anzitutto un passo indietro dal pensare di poter definire compiutamente, per legge o con la pratica delle circolari, un sistema che ha sì le sue ragioni storiche, ma poi nel corso dei decenni è stato progressivamente incasellato da definizioni burocratiche che molto spesso non hanno alcun fondamento in quello che è il lavoro artistico del teatro[14].


4. Lo Stato ‘culturale’

Il fatto è che invece di arretrare lo Stato diventa sempre più Stato Culturale, come sottolineava già vent’anni fa Marc Fumaroli in un suo celebre libro[15].
Può sembrare provocatorio utilizzare quell’etichetta anche per l’Italia. Ma, checché se ne dica, in Italia si spende molto per la cosiddetta cultura. Che lo si spenda bene è un altro discorso.
Negli ultimi decenni abbiamo assistito a una deriva incontenibile delle spese destinate alle cosiddette attività culturali. Non vi è comune o ente locale in genere che non si occupi di promuovere, anche finanziariamente, ogni genere di iniziativa. Una vera e propria ubriacatura di notti bianche, grandi e piccoli eventi, sagre e festival, fino alla più recente tendenza dei concerti pop, rock, rap, ecc. pagati dalle amministrazioni comunali, in tutto o in parte. Per molti comuni sta diventando una prassi concedere in uso gratuito spazi di proprietà pubblica per concerti rock a pagamento, e in alcuni casi anche intervenire finanziariamente a copertura di una quota-parte del cachet dell’artista. Sono fiumi di denaro pubblico che se ne vanno in questo modo attraverso le amministrazioni locali. Riteniamo che la cifra, nel complesso, sia almeno un paio di volte quella dell’intero FUS. Nessuno in fondo se ne scandalizza, perché sono i soldi destinati alla ‘cultura’. Ma la giustificazione ormai non è più nemmeno culturale. Un assessore al commercio si improvvisa ormai sempre più spesso direttore artistico e mecenate di eventi più o meno culturali in virtù di una parola magica ormai in grado di giustificare qualsiasi cosa: indotto economico. In virtù di questa logica gli amministratori comunali si fanno sempre più organizzatori e produttori anche di eventi che sono stati sempre appannaggio del libero mercato, fondati sul rischio di impresa per gli organizzatori e certamente sostenibili (anche a volte con enormi profitti) entro le logiche della domanda e dell’offerta.
Ecco dunque una ulteriore perversione: siamo sempre nel territorio dello spettacolo dal vivo, ma l’intervento pubblico pare ormai declinarsi ben oltre la funzione di accessibilità, democratizzazione, finanche oltre l’idea di sussidiarietà ad attività considerate ineluttabilmente deficitarie. La spesa pubblica per la cultura si è trasformata in promozione del territorio, incentivo alle attività commerciali (con risultati in molti casi tutti da verificare) e, perché non dirlo, strumento efficacissimo di campagne elettorali.
Gli artisti dovrebbero evitare di farsi trascinare su questo crinale. Ogni qualvolta i nostri teatranti, specie i più famosi e stimati, portano l’indotto economico (c’è chi parla di sette euro di ritorno per ogni euro investito) a sostegno della bontà dei finanziamenti pubblici allo spettacolo dal vivo, rischiano di usare contro se stessi un’arma a doppio taglio. Se questa fosse infatti la motivazione più valida per finanziare le attività culturali, perché gli amministratori pubblici non dovrebbero tener conto solo di quelle attività culturali che più di altre sarebbero in grado di generare indotto economico? Invece di spendere centomila euro per ospitare dieci spettacoli teatrali, senza alcuna sicurezza sul riscontro di pubblico (comunque, nei casi migliori, limitato), è molto più efficace spenderli per un paio di concerti rock con cantanti anche solo mediamente famosi e portare in città (o nel piccolo borgo) senza grandi sforzi venti-trentamila persone (forse anche di più).
Ora non stiamo più parlando solo di slittamenti di senso, distorsioni prospettiche od oblio delle buone intenzioni su cui si era fondata l’idea di cultura come servizio pubblico. Gli eventi e i concerti rock pagati con i soldi del contribuente sono le metastasi di un corpo gravemente malato.
Difficile intervenire ora. L’opera di prevenzione sarebbe stata opportuna a partire almeno da una trentina d’anni fa.
Il mondo del teatro non ha ovviamente alcuna colpa per questa deriva. Tuttavia credo che il ‘peccato originale’ derivi proprio da come sono state impostate nel lungo periodo le politiche culturali nei confronti dello spettacolo dal vivo in Italia.
La frantumazione progressiva della comunità cittadina, della cultura urbana se vogliamo così chiamarla, che è stata caratteristica degli ultimi decenni, ha messo per forza di cose in discussione anche il ruolo istituzionale del teatro pubblico così come concepito negli anni Cinquanta. Bisogna partire da questa mutazione antropologica e sociale, che ha reso sempre più difficoltosa la definizione di una cultura cittadina, per mettere in discussione la stessa legittimità di un modello storico dall’alto valore simbolico.
E, in effetti, le circolari ministeriali che negli anni Settanta attraggono nella sfera del servizio pubblico le nuove realtà sono il riconoscimento di un pluralismo, di un definirsi di nuove istanze teatrali di indubbio interesse pubblico; tuttavia esse lo sono nei termini di un sovrapporsi progressivo, incasellato, classificato come complessivamente di interesse pubblico, che lascia inalterato il modello precedente con la persistenza di una forte identificazione del momento pubblico con alcune privilegiate istituzioni (gli stabili ad iniziativa pubblica e, ovviamente, gli enti lirici)[16]. Risulta evidente il latente conflitto di interessi, dato che l’intervento pubblico si esprime in certi casi solo come esterno (finanziatore), mentre in altri casi come esterno e interno contemporaneamente, essendo il momento pubblico chiamato direttamente in causa, attraverso i poteri locali (comune, provincia, regione) nella gestione dei teatri stabili ad iniziativa pubblica e degli enti lirici.
È dunque evidente che la stessa lottizzazione politica dei consigli di amministrazione dei teatri pubblici, più che un malcostume, risulta un anacronismo rispetto a un contesto che, in origine, poteva anche giustificare con ottime ragioni le rappresentanze degli enti locali nei teatri pubblici intesi come espressione dell’intera comunità cittadina.
All’interno di un sistema policentrico come quello contemporaneo una politica culturale compiutamente democratica e liberale non potrebbe che mettere in discussione un modello che non risulti fondato su una equidistanza rispetto al pluralismo delle poetiche teatrali.
Non v’è dubbio che certi stabili pubblici, specie in virtù del loro ruolo storico in un determinato contesto urbano, in certi casi addirittura regionale, e della funzione determinante svolta dal punto di vista artistico, a partire dal superamento dei condizionamenti storici che costringevano a una posizione di retroguardia il nostro sistema teatrale, debbano continuare a godere, forse ancor più di quanto accade oggi, di consistenti contributi economici da parte della collettività.
Quel che non risulta più accettabile, e che ha a che fare solo con una certa idea di politica culturale mentre nulla ha a che vedere con il lavoro artistico, è invece la pretesa dell’amministrazione pubblica di esprimere proprie rappresentanze all’interno delle istituzioni teatrali.
Su questo punto è oggi in gioco la stessa credibilità di tali istituzioni. Nella nostra contemporaneità, la lottizzazione politica di certe istituzioni culturali è quanto di più antitetico possa esistere rispetto a una idea di rappresentanza della vita artistica di un Paese.
L’opinione pubblica, come la si suole chiamare, intuisce perfettamente, pur forse senza averne una precisa coscienza, che le pretese valenze collettive dell’Arte sono a rischio nel momento in cui esse diventano oggetto di interessi di parte.
Quel che è in gioco non è solo il pericolo di ingerenza nel campo artistico da parte del potere politico, da verificare caso per caso, ma anzitutto il fatto che vi possa essere, anche solo come mera potenzialità, una qualsiasi contiguità opportunistica tra arte e potere politico. Cosa di per sé sempre in agguato specie in quei sistemi che non hanno saputo o voluto frapporre uno spazio intermedio tra intervento pubblico e soggetti teatrali, tra politica e arte.  
Ecco, quelle precise scelte di politica culturale fatte nell’ambito del teatro pubblico da quasi quarant’anni almeno, hanno nel tempo prodotto nei nostri amministratori una vera e propria forma mentis, caratterizzata dalla incapacità, per disabitudine pluridecennale, a pensare la politica culturale come azione slegata da un intervento diretto nella vita artistica.
Così siamo arrivati, alla fine, al fenomeno degli assessori-artisti, assessori-organizzatori. Frantumata e parcellizzata, la cultura cittadina contemporanea non ha trovato amministrazioni pubbliche capaci di intervenire dall’esterno e coordinare i molteplici soggetti che nei fatti svolgono un servizio pubblico. Ha visto invece crescere progressivamente l’intervento diretto dei poteri locali, con amministrazioni pubbliche pronte in certi casi ad organizzare manifestazioni di spettacolo dal vivo anche in concorrenza con le istituzioni teatrali finanziate dalla stessa amministrazione. Addirittura un assessore alla cultura di una grande città può oggi anche pensare che il proprio ruolo istituzionale sia in certi casi indistinguibile da quello artistico (o sedicente tale) e prodursi in performance dal vivo come attore, regista, ‘dramaturg’, col sostegno dell’assessorato che egli stesso presiede, organizzare importanti tournées all’estero per i propri spettacoli, facendo indubbiamente valere il proprio peso politico per ottenere fondi pubblici destinati a eventi celebrativi di rilevanza nazionale.


5. Recuperare un progetto pedagogico, restituire il teatro agli artisti

Il problema vero del sistema italiano non credo stia dunque nella quantità di fondi che lo Stato mette a disposizione per le attività culturali, ma nella onnipresenza dello Stato, nella parcellizzazione del budget a opera delle amministrazioni, nella logica dei tagli lineari, che hanno inesorabilmente sbarrato alle nuove generazioni l’accesso al Fondo Unico per lo Spettacolo. Sbarramento che probabilmente non esisterebbe se lo stato arretrasse, circostanziando con precisione i propri compiti. Anche solo per limitarci al FUS, senza bisogno di rivoluzioni epocali, si potrebbe intanto ripristinare il diritto delle varie categorie ad eleggere i propri rappresentanti nelle varie Commissioni Consultive, nominate invece direttamente dall’esecutivo a partire dall’era Veltroni[17].
Sarebbe un primo passo, simbolicamente rilevante, per cominciare almeno parzialmente a restituire il teatro agli artisti.
Certo non sufficiente, ché solo la costruzione di un diaframma tra potere politico e lavoro artistico garantirebbe da pericolosi sconfinamenti nell’uno e nell’altro senso.

Il processo decisionale deve essere assunto ai diversi livelli istituzionali promuovendo incontri e consultazioni in uno spazio intermedio, in istituti e organismi in cui si confrontino dialetticamente operatori politici, operatori sociali, intellettuali e rappresentanze significative di altri corpi sociali.
I modelli decisionali e gestionali devono comunque essere attivati in un quadro dove i teatranti possano sottrarsi al condizionamento diretto dell’operatore politico. Questo quadro può trovare significativi punti di riferimento fuori dalla tradizione che caratterizza in Italia il governo del teatro, e piuttosto in direzione della prassi che si è consolidata all’estero, entro tradizioni capaci di garantire la reale indipendenza della cultura dalla politica.
I progetti di riforma che sono stati riproposti in più occasioni sono falliti proprio per la pretesa di irrigidire la pratiche del teatro entro griglie chiuse, inadatte a recepire le mutevoli esigenze di un sistema complesso in continua trasformazione, e per la pretesa di subordinarlo alle ragioni della politica piuttosto che radicarlo in reali condizioni di libertà. […]
Di fronte a tutto questo, il mondo del teatro deve darsi una ragione del suo operare; deve ritrovare un’idea forte della sua presenza nella società, deve rinnovare le ragioni etiche e civili per cui esso ha saputo essere nel passato un punto di riferimento significativo per la collettività. Ma proprio per questo esso deve essere chiaro e coraggioso al proprio interno, per poterlo essere anche di fronte ai centri di iniziativa politica, agli uomini di cultura, alla intera società italiana[18].

Può darsi che la crisi finanziaria obblighi a compiere scelte radicali, forse anche a recuperare le buone intenzioni delle origini, a partire da un necessario riequilibrio dei pesi nelle grandi istituzioni che si sposti a netto favore della componente artistica. Ma sarebbe importante da subito prendere coscienza che il ruolo dello Stato come garante di un’idea di teatro come servizio pubblico potrà continuare ad avere senso solo se vi sarà in futuro una percezione del teatro come bene irrinunciabile per la collettività. Nel momento in cui il teatro appare alla grande maggioranza delle persone non come un gesto antico capace di parlare le lingue del contemporaneo, ma come qualcosa di antiquato, al limite di museale, esso non può che essere condannato alla definitiva rimozione dai nostri orizzonti culturali. Non basta enunciare la necessità del teatro per garantirne la persistenza negli ambiti di ciò che deve essere considerato di utilità pubblica. Tanto meno sarà sufficiente aumentare o diversamente articolare il supporto economico dello Stato in assenza di una condivisa percezione del teatro come bene comune.
Da questo punto di vista, lo Stato potrebbe ritrovare il proprio ruolo nell’agevolazione dell’accesso al teatro, in termini certamente anche economici, ma soprattutto, se davvero ci crede, attraverso una profonda opera di pedagogia che parta dalla scuola, che si occupi di sostenere anzitutto la cultura del teatro nei luoghi deputati alla formazione delle nuove generazioni, in quelle che sono le fabbriche del nuovo[19]. Si tratterebbe, tra l’altro, di un ritorno al cuore stesso dell’affermazione dell’idea di teatro come pubblico servizio, dato che molto spesso, in origine (così almeno in Francia e nel Regno Unito), il sistema delle sovvenzioni alle attività artistiche dipendeva non a caso dai ministeri dell’Educazione, entro una logica stringente che definiva gli ambiti della cultura di interesse generale nel momento in cui fossero riconoscibili come momento pedagogico, produzione di sapere e sua diffusione (finanche in termini di loisir), creazione artistica e sua ripercussione sociale, divertimento e istruzione. Vi sarà poi bisogno di sottolineare come la scuola e il teatro siano ‘parenti stretti’, se non altro per le modalità di comunicazione e relazione in praesentia su cui si fondano?
Sarà dunque fondamentale che la politica culturale dello Stato si rivolga anzitutto all’educazione artistica a tutti i livelli. Il teatro come servizio pubblico potrà continuare ad esistere solo a patto che le nuove generazioni lo considerino tale, dunque solo a patto che il suo specifico linguaggio, la sua differenza comunicativa, la sua forza critica mantengano un senso forte a livello collettivo[20].
Molto, certo, dipenderà dagli artisti, dalla loro capacità di restituire il teatro a quello che è sempre stato, come dicevano del resto con parole poetiche (al contempo chiare e sintetiche) gli stessi fondatori del Piccolo Teatro: «il luogo dove la comunità, adunandosi liberamente a contemplare e a rivivere, si rivela a se stessa»[21].
Luogo dunque di dialettica sociale, ma non di uniformità sociale, esso non potrà che svolgere le proprie funzioni lavorando per differenziazioni. E proprio questo vi era nelle intenzioni originarie del Piccolo Teatro di Milano (anche se poi non pienamente rispettate nelle realizzazioni pratiche), se nel suo manifesto programmatico così leggiamo:

Crediamo sia tempo di sostituire il differenziato all’uniforme e lavorare in un primo tempo in profondità per potere, in un secondo momento, guadagnare in estensione: forse il gruppo dei nostri spettatori diventerà un nucleo vivo di aggregazioni più vaste: se non c’inganniamo, ogni civiltà si attua lungo un processo d’integrazione che accosta gruppo a gruppo, ed è tanto ricca quanto più è molteplice[22].

È un passo sorprendente, e anche molto chiaro se letto senza frapporre il filtro degli ultimi sessant’anni.
Si tratta senz’altro di una rivendicazione della centralità della comunità cittadina come elemento interno agli stessi processi teatrali, da fondare sull’etica del piccolo gruppo e sulle sue potenzialità generative, che non possono che partire dal basso. Insomma, la comunità come molteplicità, il processo generativo di una communitas che si manifesta attraverso un poliedro di sensibilità artistiche; non certo l’idea di un teatro rappresentativo di una intera comunità, e in cui la collettività dovrebbe esprimersi anche attraverso rappresentanze politiche.
Si tratta infatti, soprattutto, di una forte rivendicazione dell’autonomia della sfera artistica, cui va lasciata la piena responsabilità (oltre che la piena libertà) di governare e gestire i processi artistici entro una dinamica che “accosta gruppo a gruppo”, che procede per “differenziazioni”, aggregazioni, integrazioni successive, che, lavorando anzitutto in termini di intensità e profondità potranno progressivamente guadagnare terreno in estensione (e così guadagnare, nel momento di massima curvatura di questa molteplicità di esperienze, una dimensione comunitaria e pubblica).
Forse, se solo riuscissimo a toglierci gli occhiali deformanti delle politiche culturali, nelle buone intenzioni delle origini potremmo ancora trovare una guida affidabile ai problemi del nostro tempo.



[1] P. Grassi, Teatro, pubblico servizio, in «Avanti!», 25 aprile 1946.
[2] J. Vilar, Le T.N.P. service public (1953), in Id., Le théâtre service public, présentation et notes d’Armand Delcampe, Gallimard, Paris 1975, p. 173.
[3] Ho cercato di studiare la questione nel mio La ricerca della stabilità. Appunti per uno studio dei primordi del Piccolo Teatro, in Ricerche dall’Archivio Storico del Piccolo Teatro (1947-1963), a cura di S. Locatelli, monografico di «Comunicazioni Sociali», n. 2, 2008, pp. 150-195.
[4] Si veda in proposito almeno D.E. Moggridge, Keynes, the Arts, and the State, in «History of Political Economy», XXXVII, 2005, n. 3, pp. 535-555. Per una panoramica complessiva circa la genesi e l’attività dell’Arts Council fondamentale A. Sinclair, Arts and cultures. The History of the 50 Years of the Arts Council of Great Britain, Sinclair-Stevenson, London 1995. Cfr. inoltre M. Glasgow, The concept of the Arts Council, in M. Keynes (ed.), Essays on John Maynard Keynes, Cambridge University Press, Cambridge 1975.
[5] Utile per un panorama L. Fleury, Le TNP de Vilar. Une expérience de démocratisation de la culture, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2006, pp. 21-44.
[6] Si veda almeno M. Denizot, Jeanne Laurent. Une fondatrice du service public pour la culture (1946-1952), préface de R. Abirached, Comité d’Histoire du Ministère de la Culture et des Institutions culturelles, Paris 2005.
[7] R. Abirached, Le Théâtre et le Prince. I. L’embellie 1982-1992, Actes Sud, Arles 2005, pp. 101-102 (I ed. Plon, Paris 1992).
[8] W. Baumol, W. Bowen, On the Performing Arts: the Anatomy of Their Economic Problems, in «American Economic Review», LV, 1965, pp. 495-502. Cfr. in proposito R. Abirached, Le Théâtre et le Prince, cit., pp. 102-103.
[9] Ivi, p. 106.
[10] R. Abirached, Le théâtre, service public: les avatars d’une notion, in Les Pouvoirs du théâtre. Essais pour Bernard Dort, textes réunis et présentés par Jean-Pierre Sarrazac, Éditions théâtrales, Paris 1994, poi in Id., Le théâtre et le Prince. II. Un système fatigué 1993-2004, Actes Sud, Arles 2005, pp. 121-130, cit., p. 121.
[11] S. Dalla Palma, La scena dei mutamenti, Vita e Pensiero, Milano 2001, p. 217 (riedizione del saggio Crisi del teatro e nuova istituzionalità, in «Il Castello di Elsinore», II, 1990, pp. 65-78).
[12] Cfr. l’intervista al ministro della cultura francese Fréderic Mitterand, in A. Ginori, L’arte di Stato, in «La Repubblica», 5 agosto 2011.
[13] W. Le Moli, Il peso abnorme dell’apparato, in Dove va il teatro pubblico?, dossier a cura di L. Mello e I. Pellanda, in «Venezia Musica», gennaio 2011, pp. 60-61, cit. p. 61.
[14] Su questo aspetto si veda S. Dalla Palma, La scena dei mutamenti, cit., passim.
[15] M. Fumaroli, L’État culturel. Essai sur une religion moderne, Éditions de Fallois, Paris 1991, tr. it. Lo Stato culturale. Una religione moderna, Adelphi, Milano 1993.
[16] Si veda sempre, per un approfondimento sulle questioni qui affrontate, S. Dalla Palma, La scena dei mutamenti, cit., passim.
[17] Si tratta del Decreto Legislativo 23 ottobre 1996, n. 545, che trasferisce all’Autorità di Governo, alla conferenza Stato/Regioni/Province e alla Conferenza Stato-Città il diritto di nomine delle Commissioni. Su questo aspetto si veda S. Dalla Palma, La scena dei mutamenti, cit., pp. 204-206.
[18] Ivi, p. 223.
[19] Su questo stesso tema, come è noto, insisteva A. Baricco, Basta soldi pubblici al teatro. Meglio puntare su scuola e tv, in «La Repubblica», 24 febbraio 2009. Sul dibattito che ne conseguì e altre questioni correlate rimando a S. Locatelli, Sul finanziamento pubblico al teatro in Italia. Alcuni fatti recenti, qualche nota storica e una domanda, in «Il castello di Elsinore», 2011, n. 63, pp. 51-70.
[20] Cfr. R. Abirached, Le Théâtre et le Prince. II, cit., pp. 107-108.
[21] Lettera programmatica per il P.T. della Città di Milano, in «Il Politecnico», gennaio-marzo 1947.
[22] Ibidem. Ricordiamo che la lettera programmatica venne pubblicata a firma Mario Apollonio, Paolo Grassi, Giorgio Strehler, Virgilio Tosi. Il suo effettivo estensore fu Mario Apollonio, come dimostrato definitivamente più di vent’anni fa da Odoardo Bertani. Per ulteriori appunti sulla questione e relativa bibliografia sul ruolo di Mario Apollonio nella fondazione del Piccolo Teatro di Milano mi permetto di rimandare al mio La ricerca della stabilità, cit., in part. pp. 162-171.