domenica 25 novembre 2012

Politiche della cultura e teatro come “pubblico servizio” Intenzioni delle origini e slittamenti di senso


In uscita in «Biblioteca Teatrale» e anticipato (con qualche censura!) in rivista on line,  anche in inglese con il titolo Politics of Culture and Theatre as public service. Intentions of the Origins and Shifts in Meaning, «Prospero European Review. Theatre and Research», II (2011).]


1. Teatro “pubblico servizio”. Dalla democratizzazione dell’accesso al deficit strutturale

L’idea di un teatro inteso come servizio pubblico è una della maggiori conquiste del secondo Novecento nell’ambito delle performing arts.
Al di là delle peculiarità nazionali, fu indubbiamente l’avvento del welfare state a essere decisivo nel definire l’intervento degli Stati a sostegno di un’attività considerata non riconducibile a paradigmi economici convenzionali.
L’intervento dello Stato in materia di spettacolo dal vivo ha oscillato, nel corso delle differenti epoche storiche, tra deciso disinteresse da un lato e intervento attivo dall’altro. In questo secondo caso, con giustificazioni variabili a seconda delle epoche, basate di volta in volta su istanze politiche (a volte con finalità di esplicita celebrazione del potere), sociali, pedagogiche, etiche e talora estetiche.
Nell’Europa del secondo dopoguerra il riconoscimento (non così scontato, almeno in certi contesti) delle valenze educative, sociali e culturali del teatro è andato di pari passo con il progressivo intervento riequilibratore o sussidiario delle risorse pubbliche a favore di una speciale tipologia di lavoro che, pur fondato su una base materiale dai non indifferenti costi economici, si ritiene offra un bene immateriale che difficilmente ha la possibilità di inserirsi virtuosamente entro le logiche di mercato.
Vi è sottesa, come si è accennato, una piena incorporazione del teatro entro le logiche del welfare: bene irrinunciabile per la collettività, che si deve dunque rendere accessibile alla collettività attraverso il sostegno della mano pubblica. Famose in proposito le definizioni di Paolo Grassi e Jean Vilar.

Ragioni culturali ma soprattutto ragioni economiche tengono lontano il popolo dal teatro, mentre il teatro, per la sua intrinseca sostanza, è fra le attività la più idonea a parlare direttamente al cuore e alla sensibilità della collettività, mentre il teatro è il miglior strumento di elevazione spirituale e di educazione culturale a disposizione della società. Noi vorremmo che autorità e giunte comunali, partiti e artisti si formassero questa precisa coscienza del teatro, considerandolo come una necessità collettiva, come un bisogno dei cittadini, come un pubblico servizio alla stregua della metropolitana e dei vigili del fuoco, e per questo preziosissimo pubblico servizio nato per la collettività, la collettività attuasse quei provvedimenti atti a strappare il teatro all’attuale disagio economico e al presente monopolio di un pubblico ristretto, ridonandolo alla sua vera antica essenza e alle sue larghe funzioni[1].

Dieu merci, il y a encore certains gens pour qui le théâtre est une nourriture aussi indispensable à la vie que le pain et le vin. C’est à eux, d’abord, que s’adresse le Théâtre National Populaire.
Le T.N.P est donc, au premier chef, un service public. Tout comme le gaz, l’eau, l’électricité. […] Notre ambition est donc évidente: faire partager au plus grand nombre ce que l’on a cru devoir réserver jusqu’ici à une élite. Enfin la cérémonie dramatique tire aussi son efficacité du nombre de ses participants[2].

Si tratta di parole ormai entrate nel vocabolario comune del teatro. Non sarà però inutile sottolineare che, nel contesto in cui venivano pronunciate, esse avevano una valenza provocatoria, certamente programmatica nel loro definire il ruolo che il teatro avrebbe dovuto ricoprire nelle democrazie uscite dagli sconvolgimenti della seconda guerra mondiale. In Italia, addirittura, la proposta formulata da Grassi nel 1946 non poteva che rasentare l’utopia. È facile non rendersene conto ora, poiché poco più di un anno dopo (il 14 maggio 1947) veniva inaugurato il Piccolo Teatro di Milano, il primo teatro stabile pubblico italiano; ma lo stesso travagliato percorso istituzionale che diede vita a quell’ente non può che farci riflettere su come l’idea di teatro come servizio pubblico fosse alla fine degli anni Quaranta tutta da conquistare nella sua concretezza: delimitava un terreno di battaglia dagli incerti confini e con molteplici forze in campo[3].
Senza ora poterci dilungare in un percorso storico a livello europeo, possiamo ritrovare in quasi tutti i paesi principî comuni (anche se con esiti spesso molto diversi) che sostanziarono la politica culturale nell’ambito dell’arte performativa a partire dal secondo dopoguerra.
È importante ricordare il contesto in cui si situavano gli interventi degli Stati in materia teatrale, le condizioni di dissesto in cui si trovavano o (rischiavano di venirsi a trovare) le arti, specie le arti performative, a causa degli eventi bellici. Si trattava dunque della necessità urgente di rilancio o sostegno a un settore, quello della vita artistica, che avrebbe contribuito a riattivare o, nei casi più lungimiranti, a tener viva una identità e unità civica, una communitas, messa seriamente in discussione dagli sfasci della guerra. In alcuni casi (come in Italia, per esempio) l’iniziativa veniva ‘dal basso’, erano gli artisti a sollecitare le istituzioni a farsi carico della vita culturale del Paese, in altri casi era la politica a intervenire in prima istanza, pur a volte senza una precisa coscienza, da subito, del ruolo preciso che uno Stato democratico e liberale avrebbe dovuto avere nel campo della cultura. Vi era del resto, in questi Paesi, anche una perplessità di fondo, che teorizzava in taluni casi persino il totale arretramento del momento politico dall’ambito della cultura al fine di scongiurare quei disegni carichi di implicazioni autoritarie che, tra le due guerre, avevano caratterizzato quegli Stati che, rompendo con la tradizione dello Stato liberale, avevano teorizzato l’elevazione spirituale delle masse rendendo a esse accessibili gli strumenti della cultura borghese.
Fu una questione ampiamente dibattuta, tra le due guerre, in Gran Bretagna. L’avvio della Seconda Guerra Mondiale fu, alla fine, decisivo per l’avvio di una politica di sostegno pubblico alle arti. A partire dal dicembre 1939, infatti, venne istituito il Council for Encouragement of Music and Arts (CEMA), finalizzato a garantire la persistenza delle attività musicali, teatrali, artistiche e garantire l’accesso a esse alla popolazione anche in tempo di guerra. Si trattava, nelle intenzioni del Ministero dell’educazione (suo promotore e finanziatore), di un istituto temporaneo, adatto ai tempi di guerra. Ambigua agli inizi fu l’oscillazione tra una idea di ‘servizio sociale’ finalizzato all’intrattenimento della popolazione (ivi compresa quella extra-urbana e della provincia) e un’altra intesa come sostegno al lavoro degli artisti professionisti e agevolazione dell’accesso potenziale al loro lavoro da parte di tutti gli strati sociali. Verso questa più precisa istanza confluirono le linee di politica culturale britannica almeno a partire dall’aprile 1942, quando il presidente del CEMA, R.A. Butler, ne affidò la direzione a John Maynard Keynes, con l’obiettivo di gettare le basi per qualcosa che sarebbe dovuto diventare istituzionale e strutturale nella vita culturale britannica[4]. Quell’istituzione, come è ben noto, sarà l’Arts Council of Great Britain, che ancora oggi si occupa del supporto all’attività artistica nel Regno Unito. Avremo modo di tornare sull’argomento.
Anche in Francia rileviamo all’indomani della Liberazione un deciso intervento dello Stato (a confronto con quello che accade in Italia nello stesso periodo) a favore del teatro inteso come attività di interesse pubblico, che faceva certamente tesoro delle concrete esperienze (sebbene svincolate da qualsiasi sostegno pubblico) di Jacques Copeau e dei suoi allievi poi confluiti nel Cartel, oltre che delle più recenti proposte di Jeune France. Ma andrà sottolineato anche come in Francia una tradizione secolare, che possiamo far risalire, se non alla istituzione della Comédie Française, certamente alla Rivoluzione francese, vedeva nel teatro una potente scuola laica per cittadini, popolare dunque per suo intrinseco statuto e di interesse nazionale[5]. L’esito concreto di queste istanze si ebbe già all’indomani della Grande Guerra, con l’istituzione del Théâtre National Populaire nel 1920, in seguito portato a compiutezza esemplare a partire dal 1951, con la nomina di Jean Vilar a suo direttore da parte di Jeanne Laurent, Sous-Directeur des Spectacles et de la Musique tra 1946 e 1952, nume tutelare della decentralisation francese[6].
È dunque innegabile che l’idea di teatro come servizio pubblico sia, a livello europeo, un modello storico preciso, nato per rispondere a precise esigenze, con obiettivi definiti e circostanziati.
Come ha scritto in un contributo fondamentale Robert Abirached (pur riferendosi al caso specifico francese, ma con considerazioni in questo caso generalizzabili), all’indomani della Seconda Guerra Mondiale le sovvenzioni statali al teatro,

[…] comme l’indiquent leur modicité même et les procédures qui les accompagnent […], elles sont accordées en fonction d’un objectif clairement affiché, qui vise à transformer le fonctionnement de l’outil théâtral pour conquérir de nouveaux spectateurs. Pour l’État et leurs bénéficiaires, elles ne sont, ni plus ni moins, que le prix à payer pour l’élargissement et la démocratisation du public, étant entendu que, pour le reste, le secteur public naissant doit travailler à ses risques et périls, en tirant ses recettes une bonne moitié des ressources dont il a besoin afin de se développer conformément à sa double ambition, artistique et civique. Mais voici qu’une trentaine d’années plus tard, tout le monde convient que le théâtre est devenu une activité structurellement déficitaire.[7]

Cosa è accaduto dunque nell’arco di qualche decennio? La risposta è apparentemente semplice e ben nota, tanto che la si trova in tutti i buoni manuali di organizzazione teatrale: a differenza dell’economia moderna, che vede decrescere progressivamente i costi di produzione a livello industriale, la produttività teatrale rimane ancorata a un modello economico arcaico, in cui la quantità di lavoro non può essere ridotta. È la famosa tesi di Baumol e Bowen del 1965, che diede per altro un contributo decisivo all’istituzione del National Endowment for the Arts negli USA[8]. La lievitazione progressiva dei costi, anche tecnici, risulta tanto più marcata quanto più il teatro si pone entro logiche di concorrenza che portano a spendere sempre di più per vedettes e tecnologie costose.
Vi è stato però un paradosso, nota Abirached: questa spirale dei costi specie a livello produttivo, invece di investire soprattutto il settore privato si è fatta sentire maggiormente nel teatro sovvenzionato, «come se le sovvenzioni abbiano avuto come effetto principale una accelerazione nell’ascesa  dei costi»[9], che ha avuto come contraltare una espansione dei finanziamenti proprio negli anni Settanta / Ottanta.
Non è una questione di poco conto, poiché da un’idea di teatro come pubblico servizio che giustificava l’intervento dello Stato ai fini di democratizzazione dell’accesso al teatro di qualità attraverso una politica di prezzi accessibile, si è passati all’idea, completamente diversa, della necessità di intervento della mano pubblica a favore di un settore considerato strutturalmente deficitario. Basta oggi verificare la sostanziale inaccessibilità a livello di prezzi dei teatri lirici in Italia per rendersene conto.
Già solo questo slittamento dovrebbe mettere in guardia dall’utilizzare ancora oggi, quasi fossero delle formule, le idee di teatro come pubblico servizio così come elaborate negli anni Cinquanta. Esse rischiano di risultare obsolete, lontane dalla realtà. Una realtà che è radicalmente mutata, anche a livello socio-antropologico, rispetto a quelle di sessant’anni fa.
Enunciare queste formule, senza farne oggetto di critica in profondità, rischia infatti oggi di risultare controproducente per il teatro stesso, specie in un contesto in cui risulta difficile l’oggettività di ciò che debba essere o non essere di dominio pubblico. Se tale oggettività è in discussione per quanto riguarda l’acqua, figuriamoci quanto lo sia, agli occhi dell’opinione pubblica, per quanto riguarda le attività teatrali.

Rien n’est moins évident que la conception du théâtre comme une activité de service public, qui nous est pourtant devenue familière depuis une cinquantaine d’années. […] elle sert à justifier aujourd’hui, aux yeux de beaucoup, le poids et l’omniprésence de l’aide apportée par l’État à l’exercice du théâtre, sans qu’on puisse apercevoir très clairement le contours du consensus dont elle est l’objet. En termes plus brutaux, qu’est-ce qui fonde l’intérêt de l’État pour le théâtre, au nom de l’ensemble de citoyens, aujourd’hui que cet art n’est plus au centre de notre société?[10]


2. Economie dello spreco e della miseria. Un caso italiano?

Negli ultimi anni è del resto indubbia la crisi di fiducia nei confronti dello spettacolo dal vivo, in particolare per quanto concerne le risorse pubbliche destinate a un settore che per molti ricopre mere funzioni di loisir. Soprattutto, l’opinione pubblica fonda le proprie motivazioni di sfiducia, trovando facile sponda anche in talune forze o individualità politiche, proprio nelle grandi istituzioni culturali, spesso rappresentate come fonte di sprechi.
Il mondo del teatro e della politica che di teatro si occupa non può più, a maggior ragione in una fase di crisi come quella che stiamo vivendo, far finta che il problema non esista o che non sia risolvibile dicendo che così è, perché il teatro è strutturalmente deficitario.
Quel che da diversi anni è in corso è un processo di delegittimazione progressiva del teatro, in cui la componente dello spreco (presentato spesso come spreco non solo di risorse finanziarie, ma anche di professionalità e di potenzialità) è solo la parte più visibile, anche perché si tratta dell’unico motivo per cui i giornali, almeno in Italia, sbattono in prima pagina le questioni teatrali, ben sapendo di trovare adeguata audience nell’opinione pubblica.
Ma questa è solo la punta dell’iceberg, è il portato ultimo di una sottile politica culturale che l’Italia si porta in eredità da tanto tempo, il cui epifenomeno sono sì, in certi casi, gli sprechi, ma la cui conseguenza fenomenica davvero rilevante è la progressiva perdita di identità del teatro.
L’intervento dello Stato a sostegno delle attività teatrali si giustificava, con una certa nettezza anche a livello progettuale nell’immediato secondo dopoguerra e negli anni Cinquanta specie per quel che riguarda il sostegno alla stabilità delle istituzioni, «a garanzia della continuità, della coerenza, dell’intensità, del rigore dei processi artistici». Sembrano profetiche le parole di chi, oltre vent’anni orsono, diceva che «contro questa stabilità, delineata e costruita negli anni Cinquanta, aprendo una discontinuità nella linea della più deteriore tradizione del teatro girovago italiano, del nomadismo di guitti e giullari, congiurano gravi tendenze involutive che, di fatto, determinano un arretramento sul versante della precarietà artistica, economica, psicologica dell’operatore teatrale»[11].
È indubbio che oggi i giovani teatranti (seppur giovani quarantenni) vivano in condizioni di lavoro che per la loro precarietà, finanche per l’economia della miseria su cui si sorreggono, risultano molto più avvicinabili a quella guittesca dell’Ottocento piuttosto che a quella delle due generazioni che li hanno preceduti.


3. Dal sostegno dell’arte al sostegno delle strutture. Un sistema in panne

Le questioni relative al mantenimento, riduzione o reintegri del Fondo Unico per lo Spettacolo (FUS) sono, a tutt’oggi, assolutamente irrilevanti per il futuro del teatro italiano.
Non è una provocazione, ma un dato di fatto: da oltre dieci anni il Fondo Unico per lo Spettacolo non ammette al finanziamento nuovi gruppi teatrali, i giovani sono tagliati fuori (gli ultimi ingressi risalgono alla fine degli anni Novanta, come per esempio il progetto URT di Jurij Ferrini e la compagnia ATIR di Serena Sinigaglia). Il teatro italiano non ha futuro se il fondo che il nostro ministero della cultura (o come si è chiamato, si chiama o chiamerà) mette a disposizione del teatro guarda sempre e solo al passato.
In Italia il blocco o la riduzione progressiva (in termini reali) dei fondi pubblici destinati al teatro ha prodotto un’impasse nel sistema. Negli anni in cui questo capitolo di spesa cresceva, attraverso la prassi delle circolari ministeriali era stato possibile inquadrare i nuovi fermenti del teatro italiano entro gli ingranaggi del sostegno pubblico. Quando, a un certo punto, la crescita di fondi si è bloccata non è più stato possibile accogliere nuove istanze di finanziamento. Infine, con la decrescita progressiva dei fondi degli ultimi dieci anni si è proceduto a una distribuzione delle risorse attraverso la logica dei tagli lineari, divenuta poi pratica diffusa in tutto il comparto pubblico a causa della grave crisi finanziaria del nostro tempo.
Tutto questo pare fondato su una logica ineluttabile, dal momento che i governi italiani degli ultimi dieci anni non sono stati in grado di aumentare questo capitolo di spesa. E ora, certo, pare davvero impossibile un cambio di rotta. Così, purtroppo, chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori.
Tuttavia, la particolare congiuntura economica di questi ultimi anni ci consente ora di osservare la condotta di altri Paesi alle prese con il problema della riduzione dei budget da destinare alle cosiddette attività culturali. Sì, perché purtroppo oggi i tagli alla cultura e al teatro non sono più una prerogativa italiana (solo lo stato culturale francese pare salvarsi su questo terreno[12]). L’Arts Council, per esempio, ha subito un taglio complessivo del 5% nel corso della stagione 2009/2010 e un ulteriore drastico taglio dei fondi per i quattro anni successivi. Si passerà infatti dagli attuali 449,5 a 349 milioni di sterline nel 2014 (circa 400 milioni di euro al cambio attuale, poco meno dell’ultimo FUS, dopo il reintegro pagato con un aumento ad hoc delle tasse sulla benzina).
Il 30 marzo 2011 l’Arts Council England ha reso nota la ripartizione dei fondi per il triennio 2012-2014.
Nel triennio appena concluso sono state 791 le istituzioni finanziate. Per il successivo triennio riceveranno fondi solo 585 fra queste, cui si aggiungeranno 110 new entries. In tutto, dunque, verranno finanziate 695 istituzioni (su un totale di 1333 richiedenti).
Ben 206, invece, sono stati letteralmente tagliati, non riceveranno più nulla dall’Arts Council. Tra queste spicca il Dartington Hall Trust. Nonostante sia stato stabilmente finanziato negli ultimi decenni, ora ha visto decrescere il contributo assegnato da 600.000 sterline l’anno a 0.
Quali le reazioni di David Francis, direttore del Dartington? Avrà protestato platealmente? Avrà avviato uno sciopero della fame e della sete incatenandosi al suo botteghino?
Niente di tutto questo. Semplicemente ha rilasciato la seguente dichiarazione (che riprendiamo dal «The Indipendent» del 31 marzo 2011): «Siamo rimasti sorpresi dal non aver ricevuto nulla, ma il Dartington è in attività da 80 anni, già da prima che venissero attivati i finanziamenti pubblici; la nostra struttura poi, ha una base di finanziamento misto. Vorrà dire che chi vorrà venire a lavorare da noi dovrà portare anche un po’ di soldi».
Non tutti, certo, hanno mantenuto la calma di Francis.
A noi però interessano le logiche complessive di finanziamento pubblico al teatro seguite in Inghilterra attraverso l’Arts Council. Pur in un contesto di riduzione dei fondi, non vi sono stati tagli lineari. In nessun caso. C’è chi è stato cassato completamente, c’è chi ha subito tagli di circa il 15% (come alcune delle istituzioni più rappresentative: Royal Shakespeare Company, Royal Opera House e National Theatre), ma c’è anche chi ha visto crescere in maniera consistente il proprio finanziamento, come il Barbican Centre (+108%), la compagnia Punchdrunk (+141%), o il Lincoln Arts Trust (+285%).
Come fanno in Inghilterra, viene subito da chiedersi, a prendere (o meglio a poter prendere) questo tipo di decisioni?
Tutto apparentemente molto semplice. La commissione ha lavorato a partire da principi di fondo chiari e trasparenti, senz’altro condivisibili (in quel contesto) per quasi tutti gli addetti ai lavori (e proprio addetti ai lavori, e non certo politicanti di sorta, sono tutti i componenti del direttivo).
Fa un certo effetto, per noi italiani abituati a sentir sempre parlare di tagli lineari, leggere ben in evidenza nel sito dell’Arts Council che il principio basilare su cui si fondano (in questo periodo storico) tutte le scelte è il seguente: «sovvenzioni adeguate alle reali necessità di ciascuna organizzazione, e non ‘tagli uguali per tutti’».
Continuiamo forse ancora a stupirci che in Inghilterra i teatranti che non ricevono più alcun finanziamento non alzino le barricate. Ma il fatto è che davvero tutti (o quasi) condividono i criteri di base su cui lavora l’Arts Council. È fuori discussione, per chiunque lavori in quel contesto, il principio meritocratico di fondo. E fuori discussione sono la trasparenza e l’indipendenza di giudizio dei suoi membri, anche (e soprattutto) nei casi in cui debbano prendere scelte drastiche o dolorose. Si tratta di un dato che è parte integrante della mentalità inglese. E non sarà inutile ricordare che l’Arts Council venne fondato, per volere espresso del suo ideatore, John Maynard Keynes, sul principio della «interposta persona», al fine di slegare la cultura dal condizionamento diretto della politica, e così ridurre quanto più possibile anche i rischi di contiguità opportunistica tra le arti e il potere politico.
È evidente, quel sistema teatrale è nel complesso molto diverso da quello italiano. Il problema è che da noi, specie in un contesto di riduzione progressiva degli stanziamenti, pare non vi sia la volontà di entrare nel merito di una reale riforma strutturale delle sovvenzioni al teatro, che si perpetuano da decenni (se non addirittura dal periodo fascista) secondo logiche che palesemente non funzionano più.
Forse in Italia è ancora troppo forte lo spirito corporativo, che inevitabilmente conduce ai tagli lineari (un po’ meno soldi per tutti), in mancanza di una politica culturale che sia capace di scelte certamente difficili, coraggiose, finanche dolorose, ma che potrebbero essere vitali per il futuro del teatro italiano.
L’Inghilterra forse ci insegna che solo azzerando (o riducendo di molto) i fondi pubblici a chi non li merita, chi lavora bene (o anche solo ha le potenzialità per farlo) potrà avere da subito di più, e così lavorare meglio (e non invece rischiare di dover lavorare peggio, come da noi succede sempre più spesso). Soprattutto, solo in questo modo sarebbe possibile mantenere il sistema davvero aperto alle realtà emergenti, che altrimenti rischierebbero di non poter crescere, o addirittura morire, in un contesto in cui le risorse finanziarie, già di per sé stabili se non in riduzione in tempo di prosperità, tenderanno (almeno nell’immediato futuro) a decrescere inesorabilmente.
L’impasse del sistema italiano non è un destino, ma è dovuta a una precisa scelta di politica culturale, se così la si può chiamare, frutto a mio parere anche di un equivoco relativo alla nozione stessa di teatro come pubblico servizio.
È quello che potremmo chiamare oblio delle buone intenzioni delle origini: i fondi che erano stati pensati per portare a una più alta dignità complessiva il lavoro del teatro, per togliere di mezzo le concrezioni storiche nefaste del sistema produttivo e distributivo di un declinante teatro all’antica italiana, per dare stabilità al lavoro artistico, e così innescare processi creativi virtuosi che portassero a un teatro di qualità accessibile ai cittadini (è questa la vera grande battaglia condotta da Paolo Grassi), ecco oggi quei fondi destinati (per la maggior parte) a sostenere l’Arte, sono diventati fondi molto spesso destinati a sostenere le strutture, gli enti.
Su questo non ci possiamo certo sbagliare se anche Walter Le Moli (che nella sua carriera ha ricoperto svariati ruoli istituzionali nel teatro italiano, tra cui anche la direzione di uno dei più importanti teatri stabili) ha recentemente definito con queste parole «il nocciolo della questione che attanaglia il teatro pubblico italiano»:

[…] vale a dire il peso dell’apparato, che finisce per inibire la produzione. L’apparato e la struttura, nati per supportare l’attività teatrale, sono diventati il terminale, il destinatario e la ragione di esistere delle istituzioni. Eppure esse sono state istituite proprio per produrre teatro, non per pagare gente che il teatro lo tenesse aperto. Un caso emblematico è l’Ente teatrale italiano. Come è riuscita a fallire una struttura che non produceva alcunché e si limitava a ospitare, ricevendo dallo Stato venti milioni di euro, più di qualunque Stabile? Semplice, perché il costo dell’apparato, che va dalla maschera fino al presidente, assorbiva tutto. Questo significa essere usciti dai binari. Ma perché tutto questo lo devono pagare gli artisti? Perché alla fine a pagare dev’essere la sola vera ragione di esistenza di queste istituzioni?[13]

Ecco, la conseguenza diretta di questo stato delle cose è che, in un contesto in cui i tagli dei finanziamenti al teatro (e una loro possibile revisione) vengono contestati con le ragioni dei sindacati, diciamo anche di certe corporazioni, dei posti di lavoro che non possono andar persi nelle istituzioni, i finanziamenti al teatro vengono di fatto trattati come un diritto acquisito. Dopo decenni in cui parti sempre più consistenti dei budget destinati alla produzione venivano messi a gestione, senza che mai nessuno denunciasse o solo considerasse questa diffusa prassi ai limiti della malversazione, pare divenuta impossibile anche una qualsiasi diversa politica culturale nei confronti del sistema teatrale italiano.
Ci vorrebbe un atto di coraggio della politica, ma non un atto di coraggio comunemente inteso nei termini di azione diretta, bensì un atto che sarebbe al contempo il più coraggioso e il più efficace per una politica culturale degna di uno stato democratico e liberale: fare un passo indietro. Anzitutto un passo indietro dal pensare di poter definire compiutamente, per legge o con la pratica delle circolari, un sistema che ha sì le sue ragioni storiche, ma poi nel corso dei decenni è stato progressivamente incasellato da definizioni burocratiche che molto spesso non hanno alcun fondamento in quello che è il lavoro artistico del teatro[14].


4. Lo Stato ‘culturale’

Il fatto è che invece di arretrare lo Stato diventa sempre più Stato Culturale, come sottolineava già vent’anni fa Marc Fumaroli in un suo celebre libro[15].
Può sembrare provocatorio utilizzare quell’etichetta anche per l’Italia. Ma, checché se ne dica, in Italia si spende molto per la cosiddetta cultura. Che lo si spenda bene è un altro discorso.
Negli ultimi decenni abbiamo assistito a una deriva incontenibile delle spese destinate alle cosiddette attività culturali. Non vi è comune o ente locale in genere che non si occupi di promuovere, anche finanziariamente, ogni genere di iniziativa. Una vera e propria ubriacatura di notti bianche, grandi e piccoli eventi, sagre e festival, fino alla più recente tendenza dei concerti pop, rock, rap, ecc. pagati dalle amministrazioni comunali, in tutto o in parte. Per molti comuni sta diventando una prassi concedere in uso gratuito spazi di proprietà pubblica per concerti rock a pagamento, e in alcuni casi anche intervenire finanziariamente a copertura di una quota-parte del cachet dell’artista. Sono fiumi di denaro pubblico che se ne vanno in questo modo attraverso le amministrazioni locali. Riteniamo che la cifra, nel complesso, sia almeno un paio di volte quella dell’intero FUS. Nessuno in fondo se ne scandalizza, perché sono i soldi destinati alla ‘cultura’. Ma la giustificazione ormai non è più nemmeno culturale. Un assessore al commercio si improvvisa ormai sempre più spesso direttore artistico e mecenate di eventi più o meno culturali in virtù di una parola magica ormai in grado di giustificare qualsiasi cosa: indotto economico. In virtù di questa logica gli amministratori comunali si fanno sempre più organizzatori e produttori anche di eventi che sono stati sempre appannaggio del libero mercato, fondati sul rischio di impresa per gli organizzatori e certamente sostenibili (anche a volte con enormi profitti) entro le logiche della domanda e dell’offerta.
Ecco dunque una ulteriore perversione: siamo sempre nel territorio dello spettacolo dal vivo, ma l’intervento pubblico pare ormai declinarsi ben oltre la funzione di accessibilità, democratizzazione, finanche oltre l’idea di sussidiarietà ad attività considerate ineluttabilmente deficitarie. La spesa pubblica per la cultura si è trasformata in promozione del territorio, incentivo alle attività commerciali (con risultati in molti casi tutti da verificare) e, perché non dirlo, strumento efficacissimo di campagne elettorali.
Gli artisti dovrebbero evitare di farsi trascinare su questo crinale. Ogni qualvolta i nostri teatranti, specie i più famosi e stimati, portano l’indotto economico (c’è chi parla di sette euro di ritorno per ogni euro investito) a sostegno della bontà dei finanziamenti pubblici allo spettacolo dal vivo, rischiano di usare contro se stessi un’arma a doppio taglio. Se questa fosse infatti la motivazione più valida per finanziare le attività culturali, perché gli amministratori pubblici non dovrebbero tener conto solo di quelle attività culturali che più di altre sarebbero in grado di generare indotto economico? Invece di spendere centomila euro per ospitare dieci spettacoli teatrali, senza alcuna sicurezza sul riscontro di pubblico (comunque, nei casi migliori, limitato), è molto più efficace spenderli per un paio di concerti rock con cantanti anche solo mediamente famosi e portare in città (o nel piccolo borgo) senza grandi sforzi venti-trentamila persone (forse anche di più).
Ora non stiamo più parlando solo di slittamenti di senso, distorsioni prospettiche od oblio delle buone intenzioni su cui si era fondata l’idea di cultura come servizio pubblico. Gli eventi e i concerti rock pagati con i soldi del contribuente sono le metastasi di un corpo gravemente malato.
Difficile intervenire ora. L’opera di prevenzione sarebbe stata opportuna a partire almeno da una trentina d’anni fa.
Il mondo del teatro non ha ovviamente alcuna colpa per questa deriva. Tuttavia credo che il ‘peccato originale’ derivi proprio da come sono state impostate nel lungo periodo le politiche culturali nei confronti dello spettacolo dal vivo in Italia.
La frantumazione progressiva della comunità cittadina, della cultura urbana se vogliamo così chiamarla, che è stata caratteristica degli ultimi decenni, ha messo per forza di cose in discussione anche il ruolo istituzionale del teatro pubblico così come concepito negli anni Cinquanta. Bisogna partire da questa mutazione antropologica e sociale, che ha reso sempre più difficoltosa la definizione di una cultura cittadina, per mettere in discussione la stessa legittimità di un modello storico dall’alto valore simbolico.
E, in effetti, le circolari ministeriali che negli anni Settanta attraggono nella sfera del servizio pubblico le nuove realtà sono il riconoscimento di un pluralismo, di un definirsi di nuove istanze teatrali di indubbio interesse pubblico; tuttavia esse lo sono nei termini di un sovrapporsi progressivo, incasellato, classificato come complessivamente di interesse pubblico, che lascia inalterato il modello precedente con la persistenza di una forte identificazione del momento pubblico con alcune privilegiate istituzioni (gli stabili ad iniziativa pubblica e, ovviamente, gli enti lirici)[16]. Risulta evidente il latente conflitto di interessi, dato che l’intervento pubblico si esprime in certi casi solo come esterno (finanziatore), mentre in altri casi come esterno e interno contemporaneamente, essendo il momento pubblico chiamato direttamente in causa, attraverso i poteri locali (comune, provincia, regione) nella gestione dei teatri stabili ad iniziativa pubblica e degli enti lirici.
È dunque evidente che la stessa lottizzazione politica dei consigli di amministrazione dei teatri pubblici, più che un malcostume, risulta un anacronismo rispetto a un contesto che, in origine, poteva anche giustificare con ottime ragioni le rappresentanze degli enti locali nei teatri pubblici intesi come espressione dell’intera comunità cittadina.
All’interno di un sistema policentrico come quello contemporaneo una politica culturale compiutamente democratica e liberale non potrebbe che mettere in discussione un modello che non risulti fondato su una equidistanza rispetto al pluralismo delle poetiche teatrali.
Non v’è dubbio che certi stabili pubblici, specie in virtù del loro ruolo storico in un determinato contesto urbano, in certi casi addirittura regionale, e della funzione determinante svolta dal punto di vista artistico, a partire dal superamento dei condizionamenti storici che costringevano a una posizione di retroguardia il nostro sistema teatrale, debbano continuare a godere, forse ancor più di quanto accade oggi, di consistenti contributi economici da parte della collettività.
Quel che non risulta più accettabile, e che ha a che fare solo con una certa idea di politica culturale mentre nulla ha a che vedere con il lavoro artistico, è invece la pretesa dell’amministrazione pubblica di esprimere proprie rappresentanze all’interno delle istituzioni teatrali.
Su questo punto è oggi in gioco la stessa credibilità di tali istituzioni. Nella nostra contemporaneità, la lottizzazione politica di certe istituzioni culturali è quanto di più antitetico possa esistere rispetto a una idea di rappresentanza della vita artistica di un Paese.
L’opinione pubblica, come la si suole chiamare, intuisce perfettamente, pur forse senza averne una precisa coscienza, che le pretese valenze collettive dell’Arte sono a rischio nel momento in cui esse diventano oggetto di interessi di parte.
Quel che è in gioco non è solo il pericolo di ingerenza nel campo artistico da parte del potere politico, da verificare caso per caso, ma anzitutto il fatto che vi possa essere, anche solo come mera potenzialità, una qualsiasi contiguità opportunistica tra arte e potere politico. Cosa di per sé sempre in agguato specie in quei sistemi che non hanno saputo o voluto frapporre uno spazio intermedio tra intervento pubblico e soggetti teatrali, tra politica e arte.  
Ecco, quelle precise scelte di politica culturale fatte nell’ambito del teatro pubblico da quasi quarant’anni almeno, hanno nel tempo prodotto nei nostri amministratori una vera e propria forma mentis, caratterizzata dalla incapacità, per disabitudine pluridecennale, a pensare la politica culturale come azione slegata da un intervento diretto nella vita artistica.
Così siamo arrivati, alla fine, al fenomeno degli assessori-artisti, assessori-organizzatori. Frantumata e parcellizzata, la cultura cittadina contemporanea non ha trovato amministrazioni pubbliche capaci di intervenire dall’esterno e coordinare i molteplici soggetti che nei fatti svolgono un servizio pubblico. Ha visto invece crescere progressivamente l’intervento diretto dei poteri locali, con amministrazioni pubbliche pronte in certi casi ad organizzare manifestazioni di spettacolo dal vivo anche in concorrenza con le istituzioni teatrali finanziate dalla stessa amministrazione. Addirittura un assessore alla cultura di una grande città può oggi anche pensare che il proprio ruolo istituzionale sia in certi casi indistinguibile da quello artistico (o sedicente tale) e prodursi in performance dal vivo come attore, regista, ‘dramaturg’, col sostegno dell’assessorato che egli stesso presiede, organizzare importanti tournées all’estero per i propri spettacoli, facendo indubbiamente valere il proprio peso politico per ottenere fondi pubblici destinati a eventi celebrativi di rilevanza nazionale.


5. Recuperare un progetto pedagogico, restituire il teatro agli artisti

Il problema vero del sistema italiano non credo stia dunque nella quantità di fondi che lo Stato mette a disposizione per le attività culturali, ma nella onnipresenza dello Stato, nella parcellizzazione del budget a opera delle amministrazioni, nella logica dei tagli lineari, che hanno inesorabilmente sbarrato alle nuove generazioni l’accesso al Fondo Unico per lo Spettacolo. Sbarramento che probabilmente non esisterebbe se lo stato arretrasse, circostanziando con precisione i propri compiti. Anche solo per limitarci al FUS, senza bisogno di rivoluzioni epocali, si potrebbe intanto ripristinare il diritto delle varie categorie ad eleggere i propri rappresentanti nelle varie Commissioni Consultive, nominate invece direttamente dall’esecutivo a partire dall’era Veltroni[17].
Sarebbe un primo passo, simbolicamente rilevante, per cominciare almeno parzialmente a restituire il teatro agli artisti.
Certo non sufficiente, ché solo la costruzione di un diaframma tra potere politico e lavoro artistico garantirebbe da pericolosi sconfinamenti nell’uno e nell’altro senso.

Il processo decisionale deve essere assunto ai diversi livelli istituzionali promuovendo incontri e consultazioni in uno spazio intermedio, in istituti e organismi in cui si confrontino dialetticamente operatori politici, operatori sociali, intellettuali e rappresentanze significative di altri corpi sociali.
I modelli decisionali e gestionali devono comunque essere attivati in un quadro dove i teatranti possano sottrarsi al condizionamento diretto dell’operatore politico. Questo quadro può trovare significativi punti di riferimento fuori dalla tradizione che caratterizza in Italia il governo del teatro, e piuttosto in direzione della prassi che si è consolidata all’estero, entro tradizioni capaci di garantire la reale indipendenza della cultura dalla politica.
I progetti di riforma che sono stati riproposti in più occasioni sono falliti proprio per la pretesa di irrigidire la pratiche del teatro entro griglie chiuse, inadatte a recepire le mutevoli esigenze di un sistema complesso in continua trasformazione, e per la pretesa di subordinarlo alle ragioni della politica piuttosto che radicarlo in reali condizioni di libertà. […]
Di fronte a tutto questo, il mondo del teatro deve darsi una ragione del suo operare; deve ritrovare un’idea forte della sua presenza nella società, deve rinnovare le ragioni etiche e civili per cui esso ha saputo essere nel passato un punto di riferimento significativo per la collettività. Ma proprio per questo esso deve essere chiaro e coraggioso al proprio interno, per poterlo essere anche di fronte ai centri di iniziativa politica, agli uomini di cultura, alla intera società italiana[18].

Può darsi che la crisi finanziaria obblighi a compiere scelte radicali, forse anche a recuperare le buone intenzioni delle origini, a partire da un necessario riequilibrio dei pesi nelle grandi istituzioni che si sposti a netto favore della componente artistica. Ma sarebbe importante da subito prendere coscienza che il ruolo dello Stato come garante di un’idea di teatro come servizio pubblico potrà continuare ad avere senso solo se vi sarà in futuro una percezione del teatro come bene irrinunciabile per la collettività. Nel momento in cui il teatro appare alla grande maggioranza delle persone non come un gesto antico capace di parlare le lingue del contemporaneo, ma come qualcosa di antiquato, al limite di museale, esso non può che essere condannato alla definitiva rimozione dai nostri orizzonti culturali. Non basta enunciare la necessità del teatro per garantirne la persistenza negli ambiti di ciò che deve essere considerato di utilità pubblica. Tanto meno sarà sufficiente aumentare o diversamente articolare il supporto economico dello Stato in assenza di una condivisa percezione del teatro come bene comune.
Da questo punto di vista, lo Stato potrebbe ritrovare il proprio ruolo nell’agevolazione dell’accesso al teatro, in termini certamente anche economici, ma soprattutto, se davvero ci crede, attraverso una profonda opera di pedagogia che parta dalla scuola, che si occupi di sostenere anzitutto la cultura del teatro nei luoghi deputati alla formazione delle nuove generazioni, in quelle che sono le fabbriche del nuovo[19]. Si tratterebbe, tra l’altro, di un ritorno al cuore stesso dell’affermazione dell’idea di teatro come pubblico servizio, dato che molto spesso, in origine (così almeno in Francia e nel Regno Unito), il sistema delle sovvenzioni alle attività artistiche dipendeva non a caso dai ministeri dell’Educazione, entro una logica stringente che definiva gli ambiti della cultura di interesse generale nel momento in cui fossero riconoscibili come momento pedagogico, produzione di sapere e sua diffusione (finanche in termini di loisir), creazione artistica e sua ripercussione sociale, divertimento e istruzione. Vi sarà poi bisogno di sottolineare come la scuola e il teatro siano ‘parenti stretti’, se non altro per le modalità di comunicazione e relazione in praesentia su cui si fondano?
Sarà dunque fondamentale che la politica culturale dello Stato si rivolga anzitutto all’educazione artistica a tutti i livelli. Il teatro come servizio pubblico potrà continuare ad esistere solo a patto che le nuove generazioni lo considerino tale, dunque solo a patto che il suo specifico linguaggio, la sua differenza comunicativa, la sua forza critica mantengano un senso forte a livello collettivo[20].
Molto, certo, dipenderà dagli artisti, dalla loro capacità di restituire il teatro a quello che è sempre stato, come dicevano del resto con parole poetiche (al contempo chiare e sintetiche) gli stessi fondatori del Piccolo Teatro: «il luogo dove la comunità, adunandosi liberamente a contemplare e a rivivere, si rivela a se stessa»[21].
Luogo dunque di dialettica sociale, ma non di uniformità sociale, esso non potrà che svolgere le proprie funzioni lavorando per differenziazioni. E proprio questo vi era nelle intenzioni originarie del Piccolo Teatro di Milano (anche se poi non pienamente rispettate nelle realizzazioni pratiche), se nel suo manifesto programmatico così leggiamo:

Crediamo sia tempo di sostituire il differenziato all’uniforme e lavorare in un primo tempo in profondità per potere, in un secondo momento, guadagnare in estensione: forse il gruppo dei nostri spettatori diventerà un nucleo vivo di aggregazioni più vaste: se non c’inganniamo, ogni civiltà si attua lungo un processo d’integrazione che accosta gruppo a gruppo, ed è tanto ricca quanto più è molteplice[22].

È un passo sorprendente, e anche molto chiaro se letto senza frapporre il filtro degli ultimi sessant’anni.
Si tratta senz’altro di una rivendicazione della centralità della comunità cittadina come elemento interno agli stessi processi teatrali, da fondare sull’etica del piccolo gruppo e sulle sue potenzialità generative, che non possono che partire dal basso. Insomma, la comunità come molteplicità, il processo generativo di una communitas che si manifesta attraverso un poliedro di sensibilità artistiche; non certo l’idea di un teatro rappresentativo di una intera comunità, e in cui la collettività dovrebbe esprimersi anche attraverso rappresentanze politiche.
Si tratta infatti, soprattutto, di una forte rivendicazione dell’autonomia della sfera artistica, cui va lasciata la piena responsabilità (oltre che la piena libertà) di governare e gestire i processi artistici entro una dinamica che “accosta gruppo a gruppo”, che procede per “differenziazioni”, aggregazioni, integrazioni successive, che, lavorando anzitutto in termini di intensità e profondità potranno progressivamente guadagnare terreno in estensione (e così guadagnare, nel momento di massima curvatura di questa molteplicità di esperienze, una dimensione comunitaria e pubblica).
Forse, se solo riuscissimo a toglierci gli occhiali deformanti delle politiche culturali, nelle buone intenzioni delle origini potremmo ancora trovare una guida affidabile ai problemi del nostro tempo.



[1] P. Grassi, Teatro, pubblico servizio, in «Avanti!», 25 aprile 1946.
[2] J. Vilar, Le T.N.P. service public (1953), in Id., Le théâtre service public, présentation et notes d’Armand Delcampe, Gallimard, Paris 1975, p. 173.
[3] Ho cercato di studiare la questione nel mio La ricerca della stabilità. Appunti per uno studio dei primordi del Piccolo Teatro, in Ricerche dall’Archivio Storico del Piccolo Teatro (1947-1963), a cura di S. Locatelli, monografico di «Comunicazioni Sociali», n. 2, 2008, pp. 150-195.
[4] Si veda in proposito almeno D.E. Moggridge, Keynes, the Arts, and the State, in «History of Political Economy», XXXVII, 2005, n. 3, pp. 535-555. Per una panoramica complessiva circa la genesi e l’attività dell’Arts Council fondamentale A. Sinclair, Arts and cultures. The History of the 50 Years of the Arts Council of Great Britain, Sinclair-Stevenson, London 1995. Cfr. inoltre M. Glasgow, The concept of the Arts Council, in M. Keynes (ed.), Essays on John Maynard Keynes, Cambridge University Press, Cambridge 1975.
[5] Utile per un panorama L. Fleury, Le TNP de Vilar. Une expérience de démocratisation de la culture, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2006, pp. 21-44.
[6] Si veda almeno M. Denizot, Jeanne Laurent. Une fondatrice du service public pour la culture (1946-1952), préface de R. Abirached, Comité d’Histoire du Ministère de la Culture et des Institutions culturelles, Paris 2005.
[7] R. Abirached, Le Théâtre et le Prince. I. L’embellie 1982-1992, Actes Sud, Arles 2005, pp. 101-102 (I ed. Plon, Paris 1992).
[8] W. Baumol, W. Bowen, On the Performing Arts: the Anatomy of Their Economic Problems, in «American Economic Review», LV, 1965, pp. 495-502. Cfr. in proposito R. Abirached, Le Théâtre et le Prince, cit., pp. 102-103.
[9] Ivi, p. 106.
[10] R. Abirached, Le théâtre, service public: les avatars d’une notion, in Les Pouvoirs du théâtre. Essais pour Bernard Dort, textes réunis et présentés par Jean-Pierre Sarrazac, Éditions théâtrales, Paris 1994, poi in Id., Le théâtre et le Prince. II. Un système fatigué 1993-2004, Actes Sud, Arles 2005, pp. 121-130, cit., p. 121.
[11] S. Dalla Palma, La scena dei mutamenti, Vita e Pensiero, Milano 2001, p. 217 (riedizione del saggio Crisi del teatro e nuova istituzionalità, in «Il Castello di Elsinore», II, 1990, pp. 65-78).
[12] Cfr. l’intervista al ministro della cultura francese Fréderic Mitterand, in A. Ginori, L’arte di Stato, in «La Repubblica», 5 agosto 2011.
[13] W. Le Moli, Il peso abnorme dell’apparato, in Dove va il teatro pubblico?, dossier a cura di L. Mello e I. Pellanda, in «Venezia Musica», gennaio 2011, pp. 60-61, cit. p. 61.
[14] Su questo aspetto si veda S. Dalla Palma, La scena dei mutamenti, cit., passim.
[15] M. Fumaroli, L’État culturel. Essai sur une religion moderne, Éditions de Fallois, Paris 1991, tr. it. Lo Stato culturale. Una religione moderna, Adelphi, Milano 1993.
[16] Si veda sempre, per un approfondimento sulle questioni qui affrontate, S. Dalla Palma, La scena dei mutamenti, cit., passim.
[17] Si tratta del Decreto Legislativo 23 ottobre 1996, n. 545, che trasferisce all’Autorità di Governo, alla conferenza Stato/Regioni/Province e alla Conferenza Stato-Città il diritto di nomine delle Commissioni. Su questo aspetto si veda S. Dalla Palma, La scena dei mutamenti, cit., pp. 204-206.
[18] Ivi, p. 223.
[19] Su questo stesso tema, come è noto, insisteva A. Baricco, Basta soldi pubblici al teatro. Meglio puntare su scuola e tv, in «La Repubblica», 24 febbraio 2009. Sul dibattito che ne conseguì e altre questioni correlate rimando a S. Locatelli, Sul finanziamento pubblico al teatro in Italia. Alcuni fatti recenti, qualche nota storica e una domanda, in «Il castello di Elsinore», 2011, n. 63, pp. 51-70.
[20] Cfr. R. Abirached, Le Théâtre et le Prince. II, cit., pp. 107-108.
[21] Lettera programmatica per il P.T. della Città di Milano, in «Il Politecnico», gennaio-marzo 1947.
[22] Ibidem. Ricordiamo che la lettera programmatica venne pubblicata a firma Mario Apollonio, Paolo Grassi, Giorgio Strehler, Virgilio Tosi. Il suo effettivo estensore fu Mario Apollonio, come dimostrato definitivamente più di vent’anni fa da Odoardo Bertani. Per ulteriori appunti sulla questione e relativa bibliografia sul ruolo di Mario Apollonio nella fondazione del Piccolo Teatro di Milano mi permetto di rimandare al mio La ricerca della stabilità, cit., in part. pp. 162-171.

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