Ripubblico qui un articolo apparso nella rivista «Il castello di Elsinore» 63 (2011), pp. 51-70. Un’anticipazione dello stesso saggio, con abstracts in inglese e francese, era stata pubblicata in «Prospero European Review. Theatre and Research», I (2010)
1. Alcuni fatti recenti
La stagione 2009/2010 sarà ricordata a lungo dai teatranti
italiani. In quest’anno memorabile il Governo ha drasticamente ridotto gli
stanziamenti del FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo, la linfa vitale di tutta
la scena italiana) da 460 milioni per il 2008 a 380 per il 2009, emanato un
decreto legge di ristrutturazione degli enti lirici e, da ultimo, come nei
migliori coup de théâtre, abolito
l’ETI (Ente Teatrale Italiano), storico ente (considerato inutile) fondato in epoca fascista.
Si potrà discutere se l’idea di fondo di questo governo sia
di ristrutturare o semplicemente destrutturare il teatro italiano,
rimuoverlo dall’orizzonte culturale degli italiani. Mi pare tuttavia che il
processo in atto sia per certi versi inellutabile e necessario.
Vi sono motivazioni contingenti, dovute alla crisi
finanziaria globale, ma vi è anche, mi pare, la necessità di revisione di un sistema che palesemente non
funziona più.
Certo, basterebbe la crisi a giustificare le misure che si
stanno adottando. Tuttavia, a sentire la maggioranza degli operatori del
settore sembra una barbarie tutta italiana quella dei ‘tagli alla cultura’. Ma
se guardiamo al resto dell’Europa, cosa vediamo? Che succede lo stesso un po’
ovunque. Basti pensare che, in Inghilterra, una istituzione gloriosa come
l’Arts Council (che, tra le altre cose, gestisce sostanzialmente il corrispettivo
britannico del nostro FUS) si è vista ridurre quest’anno i finanziamenti del 5%
e subirà un taglio complessivo di circa il 30% nei prossimi quattro anni.
Certo, da noi la scure che ha tagliato quasi il 20% dei fondi è stata passata
da un anno con l’altro. Bisognerà anche però fare un confronto sull’ammontare
complessivo dei fondi erogati. Si dice sempre che all’estero hanno molto di
più. Lo stanziamento per il FUS 2010 è stato di circa 410 milioni di euro[1]. Per
lo stesso anno l’Arts Council ha potuto contare su fondi per complessive 468
milioni di sterline (al cambio attuale circa 550 milioni di euro); 140 milioni
in più rispetto al FUS, per ora. Ma calcolando il taglio del 30% previsto nei
prossimi anni si arriverà più o meno alla pari. Ci si potrebbe annoiare a lungo
con conti precisi. Ma, per farla breve, confrontando FUS e Arts Council, a oggi
i fondi italiani per lo spettacolo, in prospettiva, non paiono così gravemente
sottodimensionati. Certo, la situazione pare aggravarsi drasticamente per il 2011,
con l’annuncio di un taglio di 130 milioni complessivi rispetto all’anno
precedente. Bisognerà però attendere il riparto ufficiale, ed eventuali
reintegri successivi (come già successo negli scorsi anni).
Qualcuno potrà subito controbattere che i soldi alla
cultura, e al teatro, in Inghilterra non vengono erogati esclusivamente
dall’Arts Council. Ma in Italia vengono invece erogati solo attraverso il FUS i
fondi pubblici per il teatro? Come vedremo più avanti non è così, anche per
ragioni storiche profonde.
Comunque sia, vi è al momento un solo fatto
incontrovertibile: i tagli ci sono stati e ci saranno ovunque in Europa. E
l’Italia per di più sconta deficienze strutturali ormai da decenni. Quel che
più preoccupa, in una situazione come questa, è che da noi i tagli sono lineari, vanno a colpire tutti più o
meno in ugual modo, a prescindere.
I teatranti italiani potranno e dovranno protestare contro
ogni taglio indiscriminato e irrazionale, ma soprattutto dovranno scegliere se
tentare di guidare il cambiamento, intervenire in maniera costruttiva a un
progetto di ristrutturazione, oppure restare arrocati sulle proprie posizioni
di intransigenza, e dunque alla fine lasciar
fare, con tutti i rischi connessi[2].
2. Quando per alcuni giorni, agli inizi del 2009, in
Italia si parlò di teatro sulle prime pagine dei giornali
I recenti fatti in materia di politica culturale in ambito
teatrale potrebbero apparire semplice frutto di una volontà autoritaria del
Governo Berlusconi, in un contesto di riduzione (o rimozione addirittura) degli
ambiti della vita culturale del Paese storicamente, si dice, in mano alla
sinistra.
Ma è pur vero che negli ultimi due anni il primo strale
contro il finanziamento pubblico al teatro (o, meglio, contro le modalità di
tale finanziamento) l’abbia insospettabilmente lanciato un uomo dichiaratamente
di sinistra, cioè Alessandro Baricco, scrittore che in Italia non ha bisogno di
presentazioni (al punto che negli ultimi suoi libri egli stesso si presenta
così: «Alessandro Baricco è nato nel 1958. Ha scritto saggi e romanzi che sono
stati tradotti in tutto il mondo»)[3].
Su «La Repubblica» del 24 febbraio 2009 uscì un suo articolo
che scatenò sui principali quotidiani italiani una polemica in materia di
questioni teatrali come non se ne sentivano da anni[4].
A Baricco risposero molti ‘addetti ai lavori’, come li
chiamano i nostri giornali. Per primo Sergio Escobar, direttore del principale
e primo Teatro Stabile italiano, il Piccolo Teatro di Milano, implicitamente
chiamato in causa in quanto teatro che gode dei più cospicui contribuiti
statali.
Si è trattato di polemica alla fine molto superficiale. E
non sono mancati gli insulti a Baricco, che si è pure preso dell’ubriacone da
Nicola Piovani[5].
Dico subito che a mio parere l’argomentazione di Baricco ha dei punti non
condivisibili o inopportuni. Non è possibile, per esempio, istituire un
perfetto paragone tra mercato del teatro e mercato librario, anche se è pur
vero che le logiche imprenditoriali su cui si regge l’editoria costituiscono
per certi aspetti un buon esempio di conciliazione tra mercato e cultura.
Ma non sta qui, mi pare, il nucleo del discorso di Baricco.
Si tratta invece di un discorso più in profondità, in qualche modo di carattere
storico, pur nella sua sinteticità.
Quel che bisognerebbe fare è
creare i presupposti per una vera impresa privata nell’ambito della cultura.
Crederci e, col denaro pubblico, dare una mano, senza moralismi fuori luogo. Se
si hanno timori sulla qualità del prodotto finale o sull’accessibilità
economica dei servizi, intervenire a supportare nel modo più spudorato. Lo dico
in modo brutale: abituiamoci a dare i nostri soldi a qualcuno che li userà per
produrre cultura e profitti. Basta con l’ipocrisia delle associazioni o delle
fondazioni, che non possono produrre utili: come se non fossero utili gli
stipendi, e i favori, e le regalie, e l’autopromozione personale, e i piccoli
poteri derivati. Abituiamoci ad accettare imprese vere e proprie che producono
cultura e profitti economici, e usiamo le risorse pubbliche per metterle in
condizione di tenere prezzi bassi e di generare qualità. Dimentichiamoci di
fargli pagare tasse, apriamogli l’accesso al patrimonio immobiliare delle
città, alleggeriamo il prezzo del lavoro, costringiamo le banche a politiche di
prestito veloci e superagevolate.[6]
Il problema sta nel sistema di finanziamento pubblico al
teatro, e s’era capito. Ora (e questo invece mi pare non si sia capito con
chiarezza, forse anche a causa di un infelice titolo redazionale), Baricco non
mette minimamente in discussione che lo spettacolo dal vivo debba essere finanziato, non dice di
voler azzerare i fondi distribuiti dal FUS[7].
Mette semmai in discussione le modalità dell’intervento statale[8].
Sembrerà un paradosso, ma pare quasi di rileggere (in una
versione aggiornata ai tempi nostri) un articolo che Paolo Grassi, fondatore e
signore del Piccolo Teatro di fatto per oltre trent’anni, pubblicò nei primi
mesi del 1948, mentre il governo si apprestava a varare la cosiddetta “Legge
Andreotti” sul teatro (Decreto Legislativo 20 febbraio 1948, n. 62).
Il problema è e rimane, lo si
voglia o non lo si voglia, un problema estremamente concreto, di struttura e
non di aspirazioni sia pure sentimentalmente legittime. [...]
All’infuori di questa precisa
istanza, per la quale la nostra scena di prosa deve staccarsi dalle vecchie e
superate formule organizzative e diventare finalmente un teatro nazionale, ogni
polemica, ogni conferenza, ogni aspirazione rimane mera ombra astratta.
[...] tutte le categorie
dello spettacolo italiano, dagli esercenti ai capocomici, dagli artisti
drammatici ai lavoratori dello spettacolo, sono state rappresentate e riunite
in una commissione nazionale che, in unione con i funzionari del Servizio
Teatro, ha studiato il cosidetto «da farsi».
Dopo lunghe sedute e dopo
molti sforzi, sta per esser varata la nuova legge sul teatro [...]
Una volta «estorta» allo
Stato per la povera scena di prosa una sommetta di alcune centinaia di milioni
di lire, cosa farà il competente Servizio?
Distribuirà le «sovvenzioni»
alle compagnie, in misura maggiore o minore non importa: darà da vivere a tutti
e tutti saranno contenti, i capocomici, che ricominceranno a rischiare con i
denari dello Stato, gli attori che vedranno nella loro congenita miopia risolto
il problema del pane quotidiano, gli esercenti che avranno materia prima da
offrire al pubblico.
Con le «sovvenzioni» si attua
inoltre un ritorno all’«ancien régime» e bisognerebbe proprio che questa
tecnica della «carità dello Stato al teatro» avesse funzionato a dovere, perché
se ne debba riprendere l’uso corrente.
Ordunque, «sovvenzioni».
Cioè, aiuti agli onesti e ai disonesti, alle iniziative sane e a quelle
assurde, agli organismi solidi e alle imprese trasparenti, alle idee serie e
alle megalomanie, all’arte e alla non arte [...].
Si aiuterà la grossa
compagnia a carattere internazionale come la sparuta iniziativa provinciale e
periferica che non porta (né può portare) alcun contributo al rinnovamento
della nostra scena di prosa [...].[9]
Era diverso il contesto. Il problema, a quei tempi, erano
ancora i cosiddetti trust commerciali che dominavano la scena di prosa
italiana. Ma il discorso di fondo è lo stesso: lo Stato non può pensare di
intervenire con la logica della ‘mancia’, dando denaro cash un po’ a tutti. Sono necessarie riforme strutturali, una
compiuta strategia di intervento a sostegno di una crescita dell’idea di teatro
come luogo di cultura accessibile a tutti.
3. Noterella storica. Stabilità vs. sovvenzioni.
L’avvento del primo stabile italiano e questioni di politica culturale.
È necessario fare un po’ di storia, per capire la situazione
odierna[10].
Qualcuno ha parlato di una «doppiezza» di Grassi, che
polemizza nell’articolo sopra citato contro le sovvenzioni nonostante sia
riuscito a incassare un finanziamento governativo di 400.000 lire solo pochi
mesi prima, nel novembre 1947[11]. Ma
si trattava, per la verità, di una cifra largamente lontana dalle attese, dato
che Grassi aveva presentato per la stagione 1947/1948 una richiesta complessiva
di 6.000.000 di lire[12]. Non
c’è in realtà doppiezza, almeno in questo senso. L’articolo è infatti
nettamente orientato alla rivendicazione degli interessi e delle specificità
del Piccolo Teatro; Grassi auspicava infatti un sostegno ad hoc per quei teatri che si pongono come pubblico servizio, per i teatri
stabili.
Nel Progetto per il
“Piccolo teatro della città di Milano”, presentato alla Vice Presidenza del
Consiglio dei Ministri – Servizio del Teatro in data 5 febbraio 1947, Paolo
Grassi insisteva col Servizio Teatro soprattutto sugli aspetti di gestione
economica.
Desideriamo sia sottolineato
il fatto che si tratta, in questo caso, del primo teatro a gestione municipale
d’Italia in cui un comune prenda una iniziativa di tale genere, nel settore
della cultura e in cui ogni speculazione privata viene tassativamente
esclusa.[13]
È una affermazione funzionale alla presentazione del
preventivo di entrate e uscite per la stagione inuaugurale, per la quale Grassi
prevedeva un disavanzo di 1.800.000 lire. Questa è la cifra che venne
formalmente richiesta allo Stato per l’avvio del Piccolo Teatro, e che in
effetti Grassi ottenne per la stagione inaugurale. Con una annotazione
conclusiva Grassi precisava la natura
di tale richiesta, in coerenza con la diversa
e nuova natura del Piccolo Teatro:
Importante: la cifra di £. 1.800.000 non deve intendersi in
alcun modo concessa a titolo di sovvenzione a fondo perduto, ma solo
concessa a titolo di assicurazione per eventuali perdite. In altri termini,
qualora la perdita del teatro non raggiungesse la cifra di £ 1.800.000 nel
corso della stagione, l’eventuale eccedenza verrebbe restituita al Servizio del
Teatro oppure accantonata come anticipo sulla stagione 1947-1948. Ciò è
possibile unicamente per il fatto che il “Piccolo Teatro della Città di
Milano” avrà una gestione municipale, la cui amministrazione sarà controllata
dalla ragioneria municipale e da revisori dei conti nominati dal Servizio del
Teatro, dalla Prefettura e dal Comune di Milano.[14]
La sovvenzione ottenuta tempestivamente per la stagione
inaugurale sembrava sottindere il riconoscimento, da parte del Governo, della
peculiarità del Piccolo Teatro nel panorama del teatro italiano.
Ma all’atto di presentazione del preventivo, e relativa
richiesta di sovvenzione, per la stagione 1947/1948, Grassi riceveva questa
risposta:
Sono pervenuti a questo
Servizio il prospetto della stagione che codesto Teatro intende svolgere nel
prossimo anno teatrale e la relativa richiesta di sovvenzione di L.6.000.000.
Com’è ben noto a codesta
Direzione, questo Servizio non dispone di fondi espressamente destinati a
sovvenire al teatro di prosa, così come, sia pure in misura del tutto
insufficiente, è per il teatro di musica; sono peraltro in corso gli studi per
una riforma radicale delle norme attualmente in vigore per le sovvenzioni alle
attività teatrali, così di musica come di prosa, nel quadro generale di un
nuovo ordinamento di questo Servizio, ma è da prevedere che tali studi e le
relative discussioni con le categorie interessate non potranno concretarsi in
un disegno di legge se non tra qualche tempo.
In favore di codesto Teatro,
quindi, non potrebbe che esaminarsi la possibilità – come si fece l’anno
decorso – di concedere un modesto contributo sui fondi RAI. Non può per altro
non considerarsi anzitutto che il gettito di detti fondi è, quest’anno,
estremamente limitato, mentre il numero e l’entità delle richieste da parte di
iniziative teatrali di ogni genere è cresciuto a dismisura, così che la
Commissione incaricata di erogare tali fondi si trova e si troverà nelle
maggiori difficoltà; e poi, che la sovvenzione concessa il decorso anno a
codesta Istituzione ha suscitato critiche molteplici e malumori sia per il
carattere eccezionale di essa, sia, e sopratutto, per il fatto che non venne
rappresentato, nell’intera stagione, alcun lavoro italiano.
Sembra, pertanto, che per
codesto Teatro meglio convenga attendere che siano concretati i provvedimenti
organici a beneficio del teatro di prosa e che vengano, come si pensa,
predisposti fondi adeguati del Tesoro.[15]
Ne seguirono una serie di missive al Servizio Teatro, in cui
Grassi metteva di nuovo in evidenza la condizione del tutto particolare del
Piccolo Teatro, assimilabile al Teatro alla Scala per statuto e finalità. E, in
una lettera del 12 ottobre 1947, Grassi rimproverava quasi esplicitamente il
Servizio Teatro di disperdere il danaro pubblico con sovvenzioni a iniziative
di secondaria importanza:
Di fronte a un cartellone
come il nostro, dovrebbero cadere tutte le riserve possibili: il negarci, sia
pure giocoforza, ogni aiuto, significa stroncare a priori ogni nostra
possiblità di vita.
Personalmente penso che il
Servizio Teatro che ha aiutato parecchie piccole iniziative, come quella della
Piccola Città, svuotata di un autentico interesse, debba fare tutto il
possibile per impedire che un organismo come il nostro si esaurisca nel giro di
poche settimane.
In attesa della nuova legge,
in attesa di quelle che saranno le nuove decisioni, in attesa che il nostro
progetto possa essere esaminato minutamente, abbiamo chiesto almeno un acconto
immediato di un milione di lire, onde far fronte ai gravi rischi di questo
inizio di stagione.[16]
In risposta Grassi otteneva, come si è accennato sopra, una
sovvenzione di 400.000 lire, incassata poi soltanto nel febbraio 1948[17].
Non sorprende dunque la polemica che a inizio 1948 Grassi
innescava contro le sovvenzioni a pioggia, riprendendo peraltro alcune
argomentazioni già proposte due anni prima sulle colonne dell’«Avanti!».
Nessuno ha pensato di
proporre diminuzione di tasse, diminuzione o abolizione di spese di viaggi,
diminuzione di costi per affissione di manifesti, nessuno ha pensato a
«compagnie di Stato», gestite direttamente dallo Stato, nessuno ha detto che i
teatri comunali dovrebbero essere gestiti dai Comuni e strappati alla
speculazione privata [...], nessuno si è battuto per le riforme di struttura,
per i teatri stabili, per l’esportazione dei nostri spettacoli migliori, ecc.,
ecc.
Ha dominato, sincera o
calcolata, entusiasta o sottile, una preoccupazione corporativa: gente di tutti
i partiti si è affannata a chiedere denaro allo Stato [...].[18]
Grassi insisteva sull’idea di teatro stabile, inteso in
quanto teatro pubblico con funzione di erogazione di servizi e formazione del
pubblico, presupposto per la realizzazione concreta di un «teatro d’arte per
tutti». La stabilità anzitutto come un nuovo modello produttivo, il più
importante tentativo di riforma strutturale del teatro italiano che il sistema
delle sovvenzioni che stava per essere emanato con la “Legge Andreotti”,
elaborato secondo consuete e vecchie logiche, rischiava di rendere vano. È una
persistenza, questa delle logiche di finanziamento di stampo fascista, che
ancora negli anni Sessanta Grassi considerava uno dei mali più nefasti per il
teatro italiano.
Noi siamo l’unico paese del
mondo, ancora oggi, in cui seguendo il malcostume non delle sovvenzioni, ma
delle sovvenzioni date secondo un tale criterio, tutte le volte che un sipario
si apre, lo Stato interviene. La sovvenzione cioè non è accordata a Enti di
carattere pubblico, ma a gestioni pubbliche come a gestioni private, e prescindere dal carattere artistico della
manifestazione[19].
La polemica avviata a inizio 1948 contro il sistema delle
sovvenzioni era in fondo un côté, ora
condotto sul versante delle riforme strutturali, della ormai lunga polemica
relativa alla affermazione della regia in Italia. Il Comitato per il Teatro
Nazionale, che era andato formandosi in quei mesi, raccoglieva, attorno al
fronte di una comune battaglia per la
promozione degli enti teatrali comunali in Italia, molti dei nomi che già
almeno dagli inizi degli anni Quaranta avevano fatto della regia altro fronte
comune.
Basti leggere una lettera che Gerardo Guerrieri inviava a
Grassi nel luglio 1947:
Colgo l’occasione col dirti
che abbiamo fondato l’Ente per il Teatro Nazionale; esso è emanazione
del Comitato per il T.N. che a suo tempo fece il manifesto Salvini. Questo
ente, di cui è presidente Salvini, e ha come membri i firmatari del manifesto
(te, Alvaro, D’Amico, Costa, gli scenografi ecc.) si propone l’obiettivo
principale di promuovere e rappresentare enti teatrali comunali
in tutta Italia. Esso rientra nella prossima legge per il teatro, e ci
proponiamo di agire immediatamente anche a Roma. Io ne sono segretario, e ti
informo che sei stato nominato membro del Consiglio direttivo (composto da
Salvini, Guerrieri, Stoppa, Alvaro, Grassi, Piccinato).[20]
Quasi contemporaneamente, e con ogni probabilità ancor prima
di ricevere la missiva di Guerrieri, Grassi scriveva, informato qualche giorno
prima da Salvini circa l’iniziativa del Comitato per il Teatro Nazionale[21]:
Cerchiamo di scatenare
un’agitazione su scala nazionale, cerchiamo tutti uniti di riuscire a manovrare
tutte le leve dello spettacolo italiano, cerchiamo di superare i nostri dissidi
interni, formando un nucleo vivo e operante di pochi attivi e competenti,
escludendo gli abborracciatori e gli arrivisti.[22]
E ancora, di lì a pochi giorni:
È necessario che scateniamo
una campagna nazionale di sia pure parziale realizzazione e di violenta
polemica contro la vecchia scena di prosa italiana. Sta a noi l’inserire o no,
su un piano Internazionale, il nostro spettacolo di prosa.[23]
La strategia di Grassi risulta evidente: il Piccolo Teatro
non doveva solo porsi come ente comunale a gestione municipale ma come modello
da esportare su scala nazionale. Di lì a pochi mesi, il 31 ottobre 1947, Grassi
scriverà a Gian Maria Guglielmino, a proposito del nascente Teatro d’arte della
città di Genova: «vive congratulazioni e fervidi auguri per il mio primo
figlio»[24]. La
proliferazione del modello del Piccolo si profilava come unica soluzione
possibile allo svecchiamento del sistema teatrale italiano. Maturava forse in
Grassi la coscienza, date le logiche corporativistiche che dettavano legge in
materia teatrale, di costituire progressivamente una sorta di corporazione dei
teatri d’arte comunali che fungesse da compatto gruppo di pressione in sede
politica. Se in Grassi ci fu una certa ‘doppiezza’, essa si manifestò nella
dialettica tra le continue proposte di aggiornamento e la capacità di
adeguamento al sistema in essere.
È la coscienza che la stabilità sarà non solo l’esito finale
ma anche il presupposto di un nuovo modo di operare che ancora andava
conquistato in Italia. Ma non fu certo un Comitato per il Teatro Nazionale a
difendere gli interessi del Piccolo Teatro presso il Governo. È forse vero che
Grassi aspirasse, almeno nelle primissime intenzioni degli esordi, alla
definzione del Piccolo Teatro come “teatro nazionale”, da ottenere
gradualmente, con un passaggio di gestione dal comune allo Stato[25].
Claudio Meldolesi sosteneva che questa ipotesi fu bocciata in sede politica, e
il modello divenne la Scala[26]. Le
norme statutarie per la verità sembrano definire ab initio l’intenzione di riproporre, sul versante del teatro di
prosa, il modello istituzionale degli enti lirici. E leggiamo, del resto,
quanto Grassi scriveva al Servizio Teatro, a poco più di sei mesi dalla
inauguarazione del Piccolo:
Mi sembra che l’Ente del
Piccolo Teatro abbia, per la sua struttura organizzativa e per i suoi fini
artistici, un compito da assolvere. Questo compito può somigliare al compito
che hanno gli Enti Autonomi lirici per i quali è prevista, e a priori, decisa,
una sovvenzione del Governo.
Se si ritiene che il Piccolo
Teatro di Milano debba svolgere un programma d’arte, senza dare adito alla
speculazione privata, con prezzi inferiori a quelli dei Teatri normali, con
un’azione organizzativa atta ad attrarre verso il Teatro i più larghi e diversi
strati di pubblico, soprattutto popolare, se al Piccolo Teatro è riconosciuta
questa funzione tipica e che solo il Piccolo Teatro (e non il Teatro a gestione
privata, e non la compagnia di giro) può svolgere, il Servizio Teatro non può
tradirlo nel momento in cui esso si appresta a vivere il suo primo lungo anno
di vita.
Anzitutto si tratta di difendere una richiesta di
sovvenzione in lire sei milioni, da noi avanzata e che noi ripetiamo con tutte
le nostre energie, perché ci sia dato il mezzo di realizzare con un programma
che ha suscitato il più largo plauso; il non concederci questa sovvenzione
significa comunque impedire la
completa realizzazione del programma annunciato ed assumersi tale
responsabilità.
In secondo luogo, una volta
acquisito il concetto che il Piccolo Teatro deve
essere aiutato e fiancheggiato dal Governo, si tratta di concedergli il lievito
iniziale di vita.[27]
Questi sono i punti che secondo Grassi definiscono
l’eccezionalità del Piccolo Teatro rispetto ai «teatri normali»: struttura
organizzativa, programma d’arte, assenza di speculazione privata, prezzi
inferiori al normale al fine di attrarre diverse categorie di pubblico. È solo
l’inizio di una serie di lettere con cui Grassi rivendicava una attenzione
privilegiata al proprio teatro, chiamando direttamente in causa anche il
Sottosegretario di Stato Giulio Andreotti:
La solidarietà del Governo a
tutt’oggi è stata espressa nella assai misera somma di L. 383.000.
Le possibilità di resistenza
del Teatro sono ormai esaurite: è questo l’ultimo appello che rivolgiamo al
Governo perché studi la possibilità di intervenire immediatamente a
nostro favore.
Il ritardare ulteriormente
una pratica solidarietà al nostro Ente, significherebbe, ignorandone la
contingenza, predisporne la fine. In tale spirito, la conoscenza di un lavoro
importante compiuto nel quadro del rinnovamento dello spettacolo italiano, mi
permetto di chiedere il suo personale intervento affinché la nostra richiesta
di sovvenzione sia integralmente accolta e perché un’ulteriore congruo acconto
ci venga concesso con la più ansiosa urgenza.[28]
E Andreotti interveniva tempestivamente: faceva concedere al
Piccolo acconti di 300.000 lire in data 17 marzo 1948[29], di
2.500.000 lire in data 1 aprile 1948[30] e
3.800.000 lire il 25 maggio 1948[31].
Nicola De Pirro, in data 29 marzo, annunciava invece di aver fatto includere,
nelle norme per la distribuzione dei fondi previsti dalla Legge Andreotti, «con
qualche fatica, anche delle disposizioni che riguardano i teatri stabili»[32]. Il
giorno successivo alla pubblicazione del regolamento, la Presidenza del
consiglio deliberava a favore del Piccolo Teatro «un ulteriore contributo di L.
4.000.000 (quattromilioni) a titotolo di concorso dello Stato nelle spese di
impianto per l’attività artistica da attuare nella stagione 1948/1949»[33].
Le norme attuative della legge Andreotti erano state emanate
a fine luglio 1948 e contenevano finalmente disposizioni ad hoc per il finanziamento dei teatri stabili (ma, di fatto, del
solo Piccolo Teatro, unico a vedersi esplicitamente riconosciuto tale status).
Saranno sovvenzionati:
a) Piccolo Teatro di Milano;
b) Eventuale altro teatro
stabile in Roma.
Le condizioni per
l’intervento dello Stato nel sovvenzionare i due teatri stabili suddetti sono
le seguenti:
1) che dispongano di un
teatro che abbia le attrezzature necessarie per l’agibilità artistica e per una
normale decorosa ricezione del pubblico;
2) che si impegnino a
svolgere un’attività teatrale attuando impegni con un complesso artistico di
qualità e possibilmente con doppi ruoli o la cui durata sia almeno di un anno;
3) che svolgano un repertorio scelto con criteri d’arte,
riservando agli autori italiani classici e contemporanei un adeguato posto;
4) che sottopongano all’esame
della Direzione Generale dello Spettacolo i bilanci preventivo e consuntivo e
tutti gli atti straordinari di amministrazione;
5) che abbiano una direzione
artistica qualificata la cui nomina dovrà essere approvata dalla Direzione
Generale dello Spettacolo.[34]
Si tratta del primo atto di formale riconoscimento del
Piccolo Teatro in quanto (primo) teatro stabile, ma anche dell’avvio ufficiale
di un processo che diventerà di respiro nazionale, tanto da «investire l’intero
sistema [teatrale] nazionale, spostandone l’assetto di base attraverso il
capillare impianto di istituzioni pubbliche non soggette ai condizionamenti di
mercato»[35].
Si trattò, come ha sottolineato Tessari, di processo che risultò difficoltoso e
fu forse incompiuto se è vero che esso non riuscì di fatto a configurare un
soggetto tanto forte da far valere il proprio peso circa le questioni di
politica culturale relative allo spettacolo[36]. A
livello di logiche ministeriali cambiò poco. Perdurò nei decenni, nella sua
sostanza, il sistema delle sovvenzioni, al punto che ancora oggi si attende una
legge organica che strutturi in maniera razionale il sistema teatrale italiano.
E forse ciò avvenne, ci pare di capire, ab
origine, anche a causa di una certa posizione egemonica conquistata dal
Piccolo Teatro e indotta anche dal Governo, con interventi mirati sì al
fondamentale sostegno della stabilità, ma entro logiche di politica culturale
che risentivano in fondo di una eredità ben radicata entro i servizi dello
Stato. Le disposizioni relative ai teatri stabili appaiono, più che come
tentativo di rinnovamento sistemico del teatro italiano, una soluzione ad hoc finalizzata a risolvere la
questione Piccolo Teatro; quindi, nei fatti, una sovvenzione particolare a un organismo particolare, sorto aldifuori
delle logiche vigenti (ma in fondo entro di esse reintrodotto sul versante del
sistema di finanziamento pubblico al teatro)[37].
Si tratta di aspetti di politica culturale, che meriteranno
una maggiore attenzione rispetto a quella che vi abbiamo potuto riservare in
questo intervento[38].
La stessa ipotesi di un “geniale e inconscio” “compromesso
storico ante litteram” che almeno dal
18 aprile 1948 affiderebbe alla sinistra la gestione della cultura[39],
accettabile forse come macro-categoria (ma ne riparleremo), andrà indagata più
dettagliatamente per quel che concerne le questioni teatrali. Se non altro
andrà evidenziata la sostanziale continuità, almeno a livello delle dirigenze
statali circa le questioni teatrali, con gli anni Trenta. Nicola De Pirro e
Franz De Biase rimangono saldamamente ancorati ai posti loro affidati dal
regime, rispettivamente direttore e ispettore del Servizio Teatro. La “legge
Andreotti”, abbiamo visto, ristabiliva con grande disappunto di Grassi il
sistema delle sovvenzioni a pioggia. Il sostegno pubblico agli enti teatrali
creati dal Fascismo (a partire dall’ETI) viene confermato. E pensiamo, inoltre,
al ruolo che ebbe il sottosegretario di Stato Andreotti per quel che riguarda
gli stessi finanziamenti al Piccolo Teatro. Del resto, la stessa dipendenza del
Servizio Teatro al sottosegretariato in quanto articolazione della Presidenza
del consiglio si configura come una eredità fascista, in virtù della quale
Giulio Andreotti governò di fatto il teatro italiano dal 1947 al 1953.
La fondazione degli stabili fu senz’altro l’unica grande
novità entro una linea di continuità (di «trasformazioni senza fratture» ha
parlato Tessari) con il sistema instaurato dal Fascismo[40]. E
non ci si dovrà dunque stupire se l’idea di teatro stabile come servizio
pubblico andò progressivamente definendosi come novità in cui tuttavia notiamo
il permanere di certe residuali eredità fasciste che porteranno presto a
ricadere entro i nefasti criteri della lottizzazione politica.
Le logiche dell’intervento pubblico in materia teatrale si
configurano indubbiamente nei termini di una persistenza nel contesto della cultura teatrale italiana. Esse
furono anche strumento di discontinuità
nel momento in cui furono orientate (dagli uomini di teatro che se ne
avvalsero) a rompere con la tradizione del teatro
all’antica italiana. E ciò fu evidente nel concreto lavoro del teatro,
nella gestione del lavoro con gli attori, nella conquista della stabilità,
nella intercettazione e formazione di un nuovo pubblico, nell’affermazione
della regia. Una complessa dialettica, tra persistenze e discontinuità,
destinata a pesare nei decenni successivi sulla struttura del sistema teatrale
italiano.
4. Teatro monopolio di Stato.
E poi cosa successe, dopo la Fondazione del Piccolo, con il
corrolario delle vicende che portarono al suo riconoscimento come Teatro
Stabile?
Successe che quel modello venne replicato, a volte scimmiottato, in tutta Italia, con
l’esito che a oggi abbiamo diciassette Teatri Stabili pubblici, cui si
aggiungono trentanove Teatri stabili di Innovazione, cui ancora dobbiamo aggiungere
quindici Teatri Stabili ad iniziativa privata[41].
Varrà la pena ancora rileggere Grassi: «Noi siamo l’unico
paese del mondo, ancora oggi, in cui seguendo il malcostume non delle
sovvenzioni, ma delle sovvenzioni date secondo un tale criterio, tutte le volte
che un sipario si apre, lo Stato interviene»[42].
Questo è IL problema, anche se non lo si vuole vedere.
Non è questo il luogo di una critica a uno stato di cose
protrattosi nei decenni. Ma varrà la pena sempre tenere presente lo stato delle cose come il risultato di
dimensione necessitante, ma non per forza necessaria, insita nel teatro
italiano; guardare a come il sistema degli Stabili, oggetto negli ultimi tempi
di non velate critiche, si sia costituito non come migliore dei mondi
possibili, ma entro le storture di un sistema che viene da lontano, dagli anni
di egemonia culturale di una cultura che è stata consapevolmente rimossa
(ed è un ossimoro che dovrebbe indurci a non credere troppo a una rimozione
effettiva). Per un lungo periodo il solo fatto di dire che il sistema teatrale
italiano di oggi altro non era che una eredità fascista non poteva che
risultare politicamente scorretto. Andava detto semmai con mille sotterfugi
retorici, o con una vena di biasimo critico verso un periodo su cui gettare un
colpo di spugna.
Con maggior chiarezza andranno forse invece dette le cose
come stanno. Cioè come si è storicamente configurato
il sistema teatrale italiano, entro un contesto di persistenze strutturali
entro gli apparati dello Stato democratico di una serie di opzioni procedurali
che furono avviate nel periodo antecedente. Insomma, che il sistema teatrale
italiano è come è anche perché è stato come è stato. Che le modalità di
finanziamento pubblico al teatro (con il loro côté della lottizzazione politica) di oggi sono eredi di quello che
fu il paternalismo fascista (e forse
non deriva ancora da lì una certa mentalità che si vorrebbe tipicamente
italiana e che qualcuno vorrebbe riconoscere oggi solo come persistenza
sessantottina?).
Per uscire da discorsi fuorvianti bisognerà tentare di
affermare con forza, secondo una linea che mi pare condivisa da diversi e
lucidi storici contemporanei, che la storia che ci è stata pacificamente (e
forse con intenti pacificatorî) raccontata per tanto tempo, cioè della cosiddetta
egemonia culturale della sinistra in Italia, di una sorta di compromesso
storico ante-litteram a partire almeno dal 1948, che vede la spartizione dei
poteri tra DC e sinistra (alla prima quello della gestione esecutiva, alla
seconda quello della cultura) è una delle più grandi mistificazioni storiche
della nostra età contemporanea. È quasi una leggenda
metropolitana. Certo leggenda ben costruita, che forse nemmeno i suoi
protagonisti hanno riconosciuto come tale (appunto, metropolitana). Ma pur sempre leggenda, cioè racconto mitico in cui
alla fine ci sono dei vincitori, sanciti come eroi dopo una lunga quête, e per questo dotati, si dice, di
una moralità in qualche modo
superiore. Quasi il tentativo di rendere effettivo il discorso gramsciano sulla
presa di potere dell’intellettuale nella società. Ma possibile appunto solo
nella forma della leggenda, o dell’utopia, dato il mancato (sempre
procrastinato) concretizzarsi di una pretesa egemonia culturale in potere reale
(e dunque di gramscianesimo dimidiato si è trattato, ché dal dominio della
cultura al governo reale si sarebbe dovuti arrivare per esito naturale).
Che poi alla direzione del primo teatro stabile (e in genere
dei successivi stabili) vi fossero uomini di sinistra poco importa ai fini di
questo discorso. Perché il vero padrone del teatro italiano era (ed è
tutt’oggi) lo Stato italiano. Agli inizi era poi evidente l’eredità fascista
(Servizio Teatro alle dirette dipendenze della presidenza del Consiglio)[43]. È
un dato di fatto essenziale per cogliere il teatro italiano dell’epoca
repubbicana in stato di invenzione, statu
nascenti si diceva una volta. L’oggi è lo specchio di ieri. E oggi il dato
di fatto è che lo Stato ha nei fatti il monopolio del teatro. Non si dà
iniziativa teatrale senza che vi sia un sostegno pubblico (piccolo o grande che
sia), provenga esso dal governo centrale (specie attraverso il FUS) o dai
poteri locali (regioni, comuni, province, comunità montane ecc.). Al punto che
senza tale sostegno è impensabile per chiunque pensare di dare avvio a una
qualsivoglia attività teatrale.
Sia chiaro, non siamo contro il sostegno pubblico al teatro.
Diciamo anzi chiaramente e una volta per tutte che il teatro non può
prescindere dal sostegno della collettività, che il finanziamento pubblico al
teatro è necessario. Siamo semmai
critici verso le modalità con cui tale sostegno è stato e continua a essere
dato. Non è certo questo il luogo per proporre soluzioni (politiche,
strutturali) a un problema. Semplicemente è un tema che ci sta a cuore perché
si tratta di una questione che attende ancora, per molti aspetti, di essere
storicizzata.
Non vi è stato nell’Italia del secondo dopoguerra un reale
tentativo di riforma strutturale del teatro italiano. La volontà di trasformare
il sistema delle sovvenzioni in un sistema nuovo che (a parità di risorse messe
in campo) fosse di effettivo sostegno al teatro. È quello che diceva Grassi:
sono mancate le riforme strutturali. Perché, invece di dare denaro cash, non detassare per esempio per
intero, o parzialmente ma in maniera consistente gli incassi? Perché non
agevolare le compagnie di giro o le tournées
con un aiuto concreto sul versante dei trasporti? Perché non garantire la
presenza dei vigili del fuoco a costo zero? Sembra una sciocchezza questa. Ma
perché prendere dei soldi pubblici e spenderli per pagare un altro servizio
pubblico? Tanto vale versarli direttamente ai pompieri quei soldi (perché farli
passare così di mano?). Capiamo che non è una sciocchezza. Un gruppo di giovani
che volesse aprire un suo teatro, senza la sovvenzione dello Stato, come
potrebbe permettersi di pagare i pompieri al prezzo di mercato che i teatri sovvenzionati hanno definito dentro
le (loro) regole di ‘mercato’?
Certo, andrebbe anche tolta di mezzo, da subito, una regola
che davvero appare sovietica: che il teatro pubblico non possa fare profitti ma
debba sempre chiudere in pareggio è una follia deprimente, disincentivo
paradossale che si traduce spesso nell’ineluttabilità dei “buchi di bilancio”.
È ovvio, con stipendi dei dirigenti in certi casi esagerati (esagerati in
relazione al fatto che stiamo parlando di un servizio pubblico[44]) e
nessun incentivo al profitto per decenni si è andati avanti senza cambiare
molto in Italia. Si abbassino, come si è detto, gli stipendi, si consenta ai
teatri di fare profitto, si introducano così corposi incentivi (cioè si premi
col ‘mercato’ i dirigenti migliori, cioè che dimostrino di essere tali)[45].
Qualcosa cambierà sicuramente. Potrà sembrare stupido: ma perché il primo
teatro stabile italiano solo da pochi mesi, con estrema difficoltà e solo per
la volontà ferrea del suo direttore, è riuscito ad aprire un bar aperto alla
città tutto il giorno? È antieconomico? O ci sono altre motivazioni? Si pagano
troppe tasse forse (questo è un altro capitolo del discorso). Perché a Londra o
a Berlino è così diverso?
Sono questioni sistemiche queste, che spiegano forse anche
come mai nel teatro italiano, da un certo punto in avanti, è diventato sempre
più difficile che dei giovani (magari di 26 e 28 anni, questa l’età di Strehler
e Grassi nel ’47) potessero riuscire in Italia non solo a costruire qualcosa di
stabile, duraturo, artisticamente riconosciuto a livello mondiale; non dico
fondare un Teatro Stabile, che fu agli inizi una idea di giovani e che solo i
giovani potevano e volevano realizzare (come la regia in Italia, del resto) e
che poi divenne isituzionale (con
quel che ne consegue a livello di reclutamento), ma semplicemente ad aprire un
teatro, a fare il teatro come si deve,
e, soprattutto, a porre le condizioni per farlo
durare per più di una generazione.
A un certo punto anche i teatri dei giovani degli anni Settanta e Ottanta, nei
casi in cui non siano riusciti a conquistare la stabilità pubblica, hanno
chiuso, o sono stati assorbiti dentro la macchina di altri stabili (pensiamo
alle vicende di Teatro Settimo divenuto inizialmente costola del Teatro Stabile
di Torino; ne doveva diventare il ramo “innovazione”, e vennero firmati accordi
ufficiali in tal senso, poi inspiegabilmente morti sulla carta).
E il tutto spiega anche come mai oggi non sia possibile
aprire (e soprattutto far vivere) un qualsiasi teatro, piccolo o grande,
centrale o periferico, senza una minima volontà politica che se ne faccia
carico. È l’esperienza di tutti i giorni, che tutti conosciamo. Ci sembra
normale che sia così. Ma è così perché si tratta nei fatti di un sistema
blindato, un monopolio, necessitante dunque pur non essendo necessario.
5. Il teatro e le politiche della cultura
È evidente che siamo andati a toccare, forse in modo un po’
crudele, questioni connesse a una politica culturale protrattasi per decenni e
che, per una serie di motivi sia contigenti sia strutturali, sembra oggi non
funzionare più.
È un problema ancora da storicizzare. L’Italia ha fatto una
gran fatica (in ritardo, per esempio, di 268 anni rispetto alla Francia) a
riconoscere che il teatro è un servizio pubblico che per vivere ha bisogno del
sostegno dello Stato. Lo Stato liberale italiano, a partire dal secondo
Ottocento, si segnala per la totale indiferrenza nei confronti del teatro di
prosa (non così per la lirica, «a dimostrazione del fatto che è nell’ambito del
melodramma che si realizzano alcune istanze unitive dal punto di vista della
coscienza nazionale e della risposta di popolo ai valori celebrati nell’ambito
della lirica»; una dissimmetria che del resto continua sino a oggi, con un intervento finanziario dello Stato
nettamente sproporzionato a favore dei teatri lirici[46]).
Nel secondo dopoguerra si trattava di portare l’Italia, su questo
specifico terreno, a livello delle altre nazioni europee.
Fu il Piccolo Teatro a farlo. Non si fa la storia con i se e
con i ma. Ma la storia del teatro italiano ci dice che senza la pugnacia di
Paolo Grassi l’affermazione dell’idea di Teatro Stabile sarebbe stata a lungo
ulteriormente procrastinata dalle dirigenze statali.
Anche solo per questa motivazione, per la sua funzione
storica, il Piccolo Teatro di Milano meriterà di essere sostenuto dallo Stato in eterno. Dovrebbe avere per noi il
valore che ha la Comedie Française
per i francesi.
Quale è stato però il problema?
Che l’idea del teatro stabile venne dal basso, fu recepita
dallo Stato, ma dentro un sistema e logiche di sovvenzionamento pubblico al
teatro ancora di matrice fascista. Cioè sovvenzioni a pioggia, che danno un po’
a tutti, affinché tutti siano contenti, con una mano diretta del governo entro
le dinamiche della cultura (e questa, sia detto tra parentesi, non era certo
una opzione obbligata se, negli stessi anni in cui in Italia si facevano queste
scelte, in Inghilterra Keynes pensava e faceva istituire l’Arts Council,
fondata sul principo della “interposta persona” anche al fine di slegare la
cultura dalle mani dirette della politica).
Questo spiega anche la proliferazione del modello Piccolo
Teatro. Ogni grande, media, finanche piccola città italiana ha voluto il suo
“teatro comunale a gestione municipale”. E lo Stato è sempre stato lì, pronto a
dare per avviare, e poi a dare anche di più per chiudere disastrosi buchi di
bilancio (e anche questa è stata una perversione del finanziamento pubblico al
teatro: teatri che ricevono tot e poi spendono di più, oltre il budget, sempre
con troppa fiducia forse nel futuro o forse nella provvidenza; ma oggi non sono
più i tempi e per la verità qualcosa si muove: nel 2009 il Teatro Stabile di
Torino non ha realizzato I demonî di
Stein: sforava troppo il budget previsto. E dunque non si è fatto, in barba al
fatto che si trattasse di Peter Stein. Sembra una cosa rivoluzionaria, mentre
dovrebbe essere la normalità. Va poi detto che Stein ha continuato egregiamente
e in autonomia il lavoro, mettendoci del proprio, realizzando uno degli
spettacoli più memorabili degli ultimi dieci anni. Cosa vuol dire? Solo che è
tutta colpa dello Stabile di Torino, come si sente dire, o più semplicemente
che quello spettacolo epocale poteva essere fatto senza per forza spendere
cifre faraoniche, o quanto meno rispettando il budget – tutt’altro che
irrisorio - che quello Stabile si era impegnato a coprire?).
Ora, «Stato pronto a dare» vuol dire in Italia soprattutto amministrazioni locali. Si tende a
dimenticarlo, perché quasi tutti i teatranti d’Italia piangono in continuazione
i progressivi tagli del FUS, scordandosi invece sempre di dichiarare quanto
ricevono dai poteri locali[47].
Anche qui vi sono ragioni storiche. Lo stato liberale
italiano del secondo Ottocento, a partire da una concezione del teatro come
appartenente alla cosiddetta sfera voluttuaria, aveva in qualche modo
sollecitato le amministrazioni locali a farsi carico di questo interesse particolare. È in questo
periodo che si assiste all’acquisto e alla costruzione di molti teatri da parte
delle municipalità italiane, sia nelle grandi città sia nei borghi
medio-piccoli. La combinazione di neutralità dello Stato e sistema impresariale
di gestione di questi teatri fu causa non secondaria dell’espansione e
proliferazione del teatro itinerante e grandattorico nell’Italia di fine
Ottocento[48].
Lo Stato autoritario e poi democratico tentarono di definire
un processo di razionalizzazione del sistema teatrale italiano. Ma le logiche
del localismo rimasero per forza di cose stringenti, a partire dalla fondazione
dei primi Stabili, che furono anzitutto teatri
municipali. E, soprattutto, più in generale, con un preponderante appalto
ai poteri locali della gestione delle risorse genericamente destinate alla
cultura.
Negli ultimi decenni è risultata evidente la tendenza a una
deriva incontenibile. Tanto che forse il vero problema oggi non sta
semplicemente negli Stabili (che pur andranno radicalmente ripensati), ma
ancora, quasi fenomeno carsico che riaffiora costantenemente, tutte le
iniziative minori, medie, piccole o piccolissime, a volta smaccatamente
marginali promosse dagli enti locali.
E poi tutti i comuni ormai vogliono la loro notte bianca, i loro eventi piccoli e grandi, così i sindaci
e assessori finanziano, in maniera bipartisan.
Tutti gli assessori alla cultura vogliono il loro festivalino, la loro sagra
(della patata o della mela cotta), il concertino e in alcuni casi il concertone
(ovviamente gratuito per i cittadini ma non per i contribuenti, in
piazza). E poi ci sono anche i teatri
dei paesini, dove vengono magari ospitati comici come i Fichi d’India (duo di un certo successo all’inizio degli anni
Deumila). I cittadini pagano il biglietto 20-25 euro per due grasse risate e
magari l’assessore ha anche tirato fuori altri 1000-2000 euro per
l’organizzazione, oltre ad aver concesso in certi casi la sala teatrale
comunale in uso gratuito[49]. Si
tratta dei Carri di Tespi dei giorni
nostri, con un ovvio e inquietante cortocircuito con certa offerta dell’attuale
televisione italiana.
Sono fiumi di denaro pubblico che se ne vanno in questo modo
attraverso le amministrazioni locali. Non possiamo nemmeno immaginare quanti
(ma possiamo facilmente ipotizzare una cifra nel complesso largamente superiore
all’intero FUS). E nessuno in fondo se ne scandalizza. Perché sono i soldi
destinati alla cultura.
6. Il teatro è necessario (?)
Rimane infine da trattare forse il punto più dolente della
situazione italiana, affrontato per certi versi anche dall’articolo di
Alessandro Baricco citato in apertura. Quello che più dovrebbe far soffire i
teatranti, quello su cui essi di più dovrebbero fermarsi a riflettere.
La lunga stagione teatrale del dopoguerra ha definitivamente
sancito che il teatro è necessario,
che la sua differenza di incontro vivo va salvaguardata nel contesto dei media.
Che il teatro in fondo è un luogo di igiene mentale. Ma lo è se il teatro viene
mantenuto come un posto pulito, illuminato bene. Lo è ancora
davvero pienamente? Siamo così sicuri che oggi l’idea di teatro per tutti risponda ancora alle esigenze che spinsero alla
sua realizzazione? Ha oggi il teatro quella funzione fondamentale di formazione
di una coscienza civile che ha avuto nel dopoguerra? È ancora un fondamentale
strumento di civiltà, di formazione di coscienza, su cui bisogna investire?
Sono domande retoriche. Lo è ancora, indubbiamente. Ma in
forme diverse, e con un ruolo diverso rispetto all’immediato secondo
dopoguerra.
Su questo Baricco ha forse ragione. E ha ragione per un
semplice fatto: negli anni in cui in Italia si fondavano i primi teatri stabili
la televisione non esisteva; arrivò di fatto solo una decina di anni dopo la
fondazione del Piccolo Teatro di Milano. E fu poi per svariati anni una
televisione dalla spiccata funzione pedagogica, un grillo parlante nazionale.
Divenne poi come oggi la conosciamo solo dopo qualche decennio.
Il ‘ritardo’ italiano in materia di teatro pubblico è stato
letale da questo punto di vista.
Si affermava, dal basso e faticosamente, l’idea di “teatro
d’arte per tutti”, dello Stato come garante e promotore di un teatro di
qualità, accessibile alla maggior parte della comunità, gesto irrinunciabile
per la collettività. Avrebbe potuto anche attecchire, diventare patrimonio e
bene comune, ma mancò anzitutto il tempo. Le forme del consumo televisivo
diventarono in Italia gesto collettivo prima che lo diventasse una certa idea
di teatro. Il tempo poteva anche essere recuperato, con una consapevole e
duratura opera di alfabetizzazione al teatro (e alla musica e all’arte in
genere) attraverso la scuola e i nuovi strumenti della comunicazione. Certo, si
fece molto teatro in televisione, ma era la televisione a chiederlo; cannibalizzava
il teatro per trovare un proprio linguaggio; e dopo averlo trovato mise il
teatro alla porta. Non a caso da parte dei teatranti furono enormi gli sforzi,
ancora, tra anni Sessanta e Settanta (basti ricordare le esperienze di
decentramento promosse dallo stesso Piccolo Teatro) finalizzati a intercettare
un pubblico che non fosse quasi esclusivamente di estrazione borghese e di
istruzione medio-alta. Fu un successo? Probabilmente sì in quel momento, molto
parziale se guardiamo alla situazione odierna. A volte i teatri sono strapieni,
a volte semivuoti. Non è vero che a teatro vanno solo i vecchi e giovani non si
vedono. Se ne vedono anzi moltissimi. Ma non è quello che conta. Frequentando i
teatri italiani, salvo certi casi eccezionali spesso connessi a fenomeni di
rimediazione teatrale dei successi televisivi, si ha l’impressione che manchi
una qualsiasi trasversalità, non dico a livello sociale, ma a livello
culturale. Certo, il teatro è per pochi,
per suo intrinseco statuto. Il problema è che viene collettivamente percepito
per pochi, per quei pochi che possono permetterselo, non solo e non tanto
economicamente, ma soprattutto intellettualmente. È questa percezione
collettiva del teatro, come fatto snobbistico ed elitario, intellettualistico
(con tutte le sfumature spregiative del termine) che rischia di decretarne la
definitiva rimozione. La marginalità
del teatro è certamente un valore, ma lo è finché esso viene percepito
colletivamente come luogo, intimo e appartato, in cui è possibile riconoscersi
come gruppo coeso disposto all’esercizio della propria libertà (libertà di
essere presenti, e, proprio perché in
praesentia, riconoscersi su un territorio comune, dove è possibile
esprimere giudizi critici e non semplicemente subirli).
La marginalizzazione
invece non è più un valore, ma una s-valutazione, nel momento in cui un gesto
antico viene dalla grande maggioranza delle persone percepito come antiquato. Sta qui la sconfitta
dell’idea di teatro pubblico in Italia. Paolo Grassi parlava di un teatro che
doveva essere considerato alla stregua della metropolitana e dei vigili del
fuoco; oltre sessant’anni dopo, per colpa non certo dei soli teatranti ma
soprattutto di una politica culturale di sovvenzionamento ai teatri
accompagnata dal contestuale e progressivo venir meno, invece, di un reale
sostegno alla cultura del teatro nei
luoghi deputati alla formazione delle nuove generazioni (dalla scuola alla
televisione – ha ragione da vendere Baricco su questo punto), abbiamo il timore
che gli italiani oggi scenderebbero (forse) in piazza nel caso in cui venissero
aboliti i mezzi di trasporto pubblico, ma di certo protesterebbero solo
flebilmente, finanche per la maggioranza guardando con un certo biasimo i
teatranti in sciopero forzato, se fosse abolito qualsiasi sostegno pubblico al
teatro.
[1] Così
risulta da riparto firmato dal ministro il 4 marzo 2010 e approvato dalla Corte
dei Conti il 23 aprile 2010.
[2] È una
preoccupazione di fondo che mi sembra sottesa anche in un recente articolo di
Gabriele Vacis, La cultura tra barbari e
sprechi, «La Stampa», 28 settembre 2010: «Apprezzo moltissimo la tenacia
con cui i responsabili delle istituzioni culturali, in questi giorni, tentano
di difendere quel poco che rimane. E voglio ringraziarli perché sono certo che,
in buona fede, pensano di lavorare per me e per quelli che come me hanno il
privilegio di realizzare le proprie fantasie con i soldi pubblici. Ma io,
davvero, vorrei che quella tenacia fosse indirizzata alla riorganizzazione
profonda delle istituzioni. Secondo me è questo che vogliono i politici e gli
amministratori: che le grandi fondazioni si trasformino in ambienti culturali
che lavorano secondo principi di sobrietà e di valorizzazione delle risorse.
Come si è inventato “Slow food”, vorrebbero che si inventasse una sorta di
“Light Theatre” in sintonia col proprio territorio, che è condizione
indispensabile per affrontare il grande tema della mutazione. Allora gli
amministratori pubblici sarebbero fieri dei loro artisti. Difenderebbero le
istituzioni culturali. E, visto che davvero parliamo di una goccia nel mare dei
bilanci pubblici, i finanziamenti alla cultura potrebbero anche aumentare, come
sarebbe giusto proprio in tempi di crisi».
[3]
Precedeva per la verità di circa un mese l’intervento di Alessandro Baricco, senza
tuttavia suscitare particolari attenzioni, l’articolo di fondo di Salvatore Carrubba, L’ombrello del Fondo spettacolo non può coprire tutti, «Il Sole 24
Ore», 28 gennaio 2009.
[4]
Alessandro Baricco, Basta soldi pubblici al teatro. Meglio
puntare su scuola e tv, «La Repubblica», 24 febbraio 2009.
[7]
Orientato in questo senso invece anche il commento di Oliviero Ponte di Pino, Il bambino e l’acqua sporca. La proposta di Baricco di azzerare i fondi
per il teatro, «ateatro», 120.10, leggibile all’indirizzo
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=120&ord=10. Si leggano
sempre in «ateatro» (http://www.ateatro.it), rivista che si è caratterizzata
tra l’altro negli ultimi anni per le aspre critiche verso il sistema di
sostegno pubblico al teatro, i seguenti articoli contro le pseudo-posizioni
baricchiane: Franco D’Ippolito, Caro Baricco, che ognuno cerchi di fare al
meglio il proprio mestiere. In risposta all’intervento sulla “Repubblica”,
Andrea Balzola, La vocazione suicida della cultura italiana.
Rispondendo alla proposta di Baricco di azzerare i fondi statali per il teatro
(120.12), Mimma Gallina, Il polverone Baricco. Impressioni aspettando
che si diradi (120.13); Franco D’Ippolito
interveniva invece qualche giorno prima a sostegno delle tesi espresse nel
sopracitato articolo di Salvatore Carrubba, cfr. I tagli al FUS e la capacità gestionale dei teatranti italiani. A
proposito di un intervento di Salvatore Carrubba su “Il Sole 24 Ore”
(120.7).
[8] Si
vedano le puntualizzazioni dello stesso Alessandro Baricco, Il cambio di scena che serve alla cultura,
«La Repubblica», 4 marzo 2009.
[10] In
questo paragrafo riprendo e rivedo in parte alcune considerazioni contenute in
Stefano Locatelli, La ricerca della stabilità. Appunti per uno
studio dei primordi del Piccolo Teatro, in Ricerche dall’Archivio Storico del Piccolo Teatro (1947-1963), a
cura di Stefano Locatelli, monografico di «Comunicazioni Sociali», XXX (2008),
n. 2, pp. 150-195.
[11] Cfr.
Francesca Malara, Paolo Grassi il
costruttore, in Il Piccolo Teatro di
Milano, a cura di Livia Cavaglieri, Roma, Bulzoni, 2002, pp. 32-33.
[12]
Preventivo datato 21 settembre 1947, in Archivio Storico del Piccolo Teatro
(d’ora in poi ASPT), 01, A47-II.
[13] In ASPT,
01, 47-II
[14] Ibidem.
[15] In
ASPT, 01, A47-II.
[16]
Lettera in ASPT, 01, A47-II.
[17] Cfr.
lettera del 13 febbraio 1948 ad Amedeo Tosti, ibidem.
[19] Grassi, Il teatro e il fascismo, in Fascismo e antifascismo (1918-1936). Lezioni
e testimonianze, Milano, Feltrinelli, 1962,
p. 341.
[20]
Lettera manoscritta del 18 luglio 1947, in ASPT, Epistolario Grassi, 23.
[21] Si
veda il carteggio tra Paolo Grassi e Guido Salvini in ASPT, Epistolario Grassi, 41.
[22]
Lettera 19 luglio 1947, conservata in
ASPT, Epistolario Grassi, 23.
[23]
Lettera 31 luglio 1947, ibidem.
[24]
Lettera in ASPT, Epistolario Grassi,
23.
[25] Cfr.
Claudio Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La
generazione dei registi, Firenze, Sansoni, 1984, pp. 221-222
[26] Cfr.
ibidem.
[27] Da
una lettera al prof. Amedeo Tosti datata 27 novembre 1947, in ASPT, 001,
A47-II.
[28]
Lettera 5 marzo 1948 conservata in ASPT, 01, A47-II.
[29] Cfr.
lettera a firma Giulio Andreotti, conservata ibidem.
[30]
Lettera a firma Nicola De Pirro, ibidem
[32]
Lettera conservata ibidem.
[33]
Lettera del 24 luglio 1948, conservata ibidem.
[34] Cfr.
il regolamento Erogazione di sovvenzioni
a favore di manifestazioni teatrali di prosa riviste e operette del 23
luglio 1948 che contiene «norme concordate con le competenti associazioni
professionali di categoria ed approvate dalla Commissione prevista dall’art. 2»
del decreto legislativo 20 febbraio 1948, n. 62, emanate dalla presidenza del
consiglio dei ministri-Direzione Generale dello Spettacolo. Il documento
dattiloscritto è conservato in ASPT, 01, A47-II.
[35]
Roberto Tessari, Teatro italiano del
Novecento. Fenomenologie e strutture: 1906-1976, Firenze, Le Lettere, 1996,
p. 88.
[36] Cfr.
ibidem.
[37] Ha
scritto Giorgio Guazzotti: «Mantenendo la continuità oltre che dei centri, dei
sistemi di potere, l’azione dello Stato democratico è stata essenzialmente
conservatrice e ritardatrice [...]. Le sole innovazioni sostanziali intervenute
sul piano normativo sono state imposte dallo spontaneo insorgere di iniziative
democratiche nel settore imprenditoriale. Il processo iniziato nel 1947 con il
Piccolo Teatro di Milano per la costituzione di teatri cittadini a gestione
pubblica ha richiesto, non senza fatica, che la regolamentazione delle
sovvenzioni tenesse conto della nuova esigenza; e l’esame in successione delle
disposizioni annualmente emanate con le sue stentate rettifiche è la storia
dell’accettazione, non senza resistenze, di questo fenomeno» (Giorgio Guazzotti,
Rapporto sul teatro italiano,
Milano, Silva, 1966, p. 147).
[38] Per
un panorama critico di base si veda almeno Sisto Dalla Palma, Il teatro
e le politiche della cultura, in Id.,
La scena dei mutamenti, Milano, Vita e Pensiero, 2001, pp. 173-224.
[39] Cfr.
Francesca Malara, Paolo Grassi il costruttore, in Il Piccolo Teatro di Milano, p. 34. La
tesi risulta peraltro ben consolidata e condivisa per esempio anche da F. Taviani, Uomini di scena uomini di libro. Introduzione alla letteratura teatrale
italiana del Novecento, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 179.
[41] Per
un panorama, sia storico sia sulla situazione attuale degli stabili italiani si
veda Chiara Merli, Il teatro ad
iniziativa pubblica in Italia, Milano, LED, 2007.
[43] Si
veda per un quadro d’insieme, oltre al già citato Pedullà, Il teatro italiano nel tempo del fascismo,
il denso lavoro di Emanuela Scarpellini, Organizzazione teatrale e politica del teatro nell’Italia fascista,
Milano, LED, 20042.
[44] Anticipo
in nota una possibile obiezione: «è il mercato, se i dirigenti bravi non
vengono pagati molto se ne vanno dove li pagano di più, nel privato». Viene subito da chiedersi se, nel privato (e per
precisione nei teatri privati) possano attualmente permettersi di pagare certi
stipendi. Ma soprattutto c’è sempre una contraddizione interna nei discorsi dei
teatranti quando si sollevano certe questioni: il teatro va sostenuto dallo
Stato perché non può sopravvivere entro
le logiche di mercato; gli stipendi dei più alti livelli invece devono seguire
il mercato. La coerenza è importante per far valere le proprie ragioni a
livello politico: se uno Stabile non può sopravvivere dentro una logica pura di
mercato, i dirigenti si rendano conto che del mercato non possono avere tutti
vantaggi, visto che non ne sopportano in
toto gli oneri. Mi sembrerebbe una regola di buon senso stabilire che, nel
caso di un teatro comunale, il direttore di tale teatro non può guadagnare più
del sindaco, al massimo uguale, ma non di più. La ratio mi sembra ovvia: le istituzioni garantiscono la linfa di vita al teatro e a fronte di questa
garanzia, di sicurezza, di effettiva stabilità, i dirigenti tengono i loro
salari al livello delle massime cariche statali. Se si vuole che uno Stabile
goda dei vantaggi di contributi fissi da parte dello Stato in quanto servizio pubblico, che i dirigenti
vengano pagati al massimo quanto vengono pagati i garanti di quei servizi pubblici (sindaco, presidente di
regione, ministro, presidente del consiglio). Se si vuole guadagnare di più, si
cambino certe regole, come propongo a testo.
[45]
Perché, per esempio, non stabilire che, salvo eccezioni, le tournées vanno
sostenute con logiche di mercato? Che i costi del giro devono cioè essere
sostenuti solo e soltanto dagli incassi o da sponsorizzazioni private e affini,
anche al fine di uscire dalla inveterata e spesso vergognosa logica di scambio
di favori tra Stabili, dell’io invito te
e tu inviti me, a prescindere. I costi di produzione sono stati già
sostenuti dallo Stato. Che col mercato si sostenga dunque la distribuzione. Questo col mercato si può
ben fare. Lo fanno in tutto il mondo. Perché da noi no? Ovviamente si prevedano
su queste voci degli incentivi per quei dirigenti che saranno capaci di
costruire tournées importanti per le proprie produzioni migliori, o trovino
spettatori paganti e fondi privati per fare arrivare nella propria città le
punte d’eccellenza (magari emergenti) del teatro nazionale e internazionale.
Insomma, in generale, sullo Stato i dirigenti degli Stabili guadagnino al
massimo come le più alte cariche statali, ma quando vanno sul mercato,
guadagnino in giusta proporzione ai profitti che producono. Non tutti i teatri
stabili sono uguali, ci sono quelli che fanno tournées e festival
internazionali (si pensi al festival VIE di Emilia Romagna Teatro), e ci sono
quelli che fanno scandalosamente fatica a vendere spettacoli (penso al Teatro
Stabile di Torino, per non nascondermi dietro a un dito). Il problema è che le
ripartizioni del FUS non tengono conto a sufficienza di questi criteri.
[47] Nel
caso degli Stabili, per esempio, comuni, regioni e provincie danno in genere
contributi che, sommati, superano mediatamente le stesse erogazioni FUS. Caso
limite, in particolare, il Teatro Biondo Stabile di Palermo che, dai dati 2008,
ha ricevuto dal FUS 880.130 euro, 4.500.000 euro dalla Regione Sicilia,
2.850.000 euro dal comune di Palermo, 980.130 euro dalla Provincia. Faccio
riferimento al documento pubblicato dall’Osservatorio sullo Spettacolo del
Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Relazione sull’utilizzazione del Fondo Unico per lo Spettacolo. Anno
2008, p. 197.
[49] I
dati sono ricavati da una conversazione privata con un operatore del settore,
organizzatore di svariate date del suddetto gruppo in comuni minori dell’Italia
del Nord.
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