domenica 25 novembre 2012

Sul finanziamento pubblico al teatro in Italia




Ripubblico qui un articolo apparso nella rivista «Il castello di Elsinore» 63 (2011), pp. 51-70. Un’anticipazione dello stesso saggio, con abstracts in inglese e francese, era stata pubblicata in «Prospero European Review. Theatre and Research», I (2010)


1. Alcuni fatti recenti

La stagione 2009/2010 sarà ricordata a lungo dai teatranti italiani. In quest’anno memorabile il Governo ha drasticamente ridotto gli stanziamenti del FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo, la linfa vitale di tutta la scena italiana) da 460 milioni per il 2008 a 380 per il 2009, emanato un decreto legge di ristrutturazione degli enti lirici e, da ultimo, come nei migliori coup de théâtre, abolito l’ETI (Ente Teatrale Italiano), storico ente (considerato inutile) fondato in epoca fascista.
Si potrà discutere se l’idea di fondo di questo governo sia di ristrutturare o semplicemente destrutturare il teatro italiano, rimuoverlo dall’orizzonte culturale degli italiani. Mi pare tuttavia che il processo in atto sia per certi versi inellutabile e necessario.
Vi sono motivazioni contingenti, dovute alla crisi finanziaria globale, ma vi è anche, mi pare, la necessità di  revisione di un sistema che palesemente non funziona più.
Certo, basterebbe la crisi a giustificare le misure che si stanno adottando. Tuttavia, a sentire la maggioranza degli operatori del settore sembra una barbarie tutta italiana quella dei ‘tagli alla cultura’. Ma se guardiamo al resto dell’Europa, cosa vediamo? Che succede lo stesso un po’ ovunque. Basti pensare che, in Inghilterra, una istituzione gloriosa come l’Arts Council (che, tra le altre cose, gestisce sostanzialmente il corrispettivo britannico del nostro FUS) si è vista ridurre quest’anno i finanziamenti del 5% e subirà un taglio complessivo di circa il 30% nei prossimi quattro anni. Certo, da noi la scure che ha tagliato quasi il 20% dei fondi è stata passata da un anno con l’altro. Bisognerà anche però fare un confronto sull’ammontare complessivo dei fondi erogati. Si dice sempre che all’estero hanno molto di più. Lo stanziamento per il FUS 2010 è stato di circa 410 milioni di euro[1]. Per lo stesso anno l’Arts Council ha potuto contare su fondi per complessive 468 milioni di sterline (al cambio attuale circa 550 milioni di euro); 140 milioni in più rispetto al FUS, per ora. Ma calcolando il taglio del 30% previsto nei prossimi anni si arriverà più o meno alla pari. Ci si potrebbe annoiare a lungo con conti precisi. Ma, per farla breve, confrontando FUS e Arts Council, a oggi i fondi italiani per lo spettacolo, in prospettiva, non paiono così gravemente sottodimensionati. Certo, la situazione pare aggravarsi drasticamente per il 2011, con l’annuncio di un taglio di 130 milioni complessivi rispetto all’anno precedente. Bisognerà però attendere il riparto ufficiale, ed eventuali reintegri successivi (come già successo negli scorsi anni).
Qualcuno potrà subito controbattere che i soldi alla cultura, e al teatro, in Inghilterra non vengono erogati esclusivamente dall’Arts Council. Ma in Italia vengono invece erogati solo attraverso il FUS i fondi pubblici per il teatro? Come vedremo più avanti non è così, anche per ragioni storiche profonde.
Comunque sia, vi è al momento un solo fatto incontrovertibile: i tagli ci sono stati e ci saranno ovunque in Europa. E l’Italia per di più sconta deficienze strutturali ormai da decenni. Quel che più preoccupa, in una situazione come questa, è che da noi i tagli sono lineari, vanno a colpire tutti più o meno in ugual modo, a prescindere.
I teatranti italiani potranno e dovranno protestare contro ogni taglio indiscriminato e irrazionale, ma soprattutto dovranno scegliere se tentare di guidare il cambiamento, intervenire in maniera costruttiva a un progetto di ristrutturazione, oppure restare arrocati sulle proprie posizioni di intransigenza, e dunque alla fine lasciar fare, con tutti i rischi connessi[2].


2. Quando per alcuni giorni, agli inizi del 2009, in Italia si parlò di teatro sulle prime pagine dei giornali

I recenti fatti in materia di politica culturale in ambito teatrale potrebbero apparire semplice frutto di una volontà autoritaria del Governo Berlusconi, in un contesto di riduzione (o rimozione addirittura) degli ambiti della vita culturale del Paese storicamente, si dice, in mano alla sinistra.
Ma è pur vero che negli ultimi due anni il primo strale contro il finanziamento pubblico al teatro (o, meglio, contro le modalità di tale finanziamento) l’abbia insospettabilmente lanciato un uomo dichiaratamente di sinistra, cioè Alessandro Baricco, scrittore che in Italia non ha bisogno di presentazioni (al punto che negli ultimi suoi libri egli stesso si presenta così: «Alessandro Baricco è nato nel 1958. Ha scritto saggi e romanzi che sono stati tradotti in tutto il mondo»)[3].
Su «La Repubblica» del 24 febbraio 2009 uscì un suo articolo che scatenò sui principali quotidiani italiani una polemica in materia di questioni teatrali come non se ne sentivano da anni[4].
A Baricco risposero molti ‘addetti ai lavori’, come li chiamano i nostri giornali. Per primo Sergio Escobar, direttore del principale e primo Teatro Stabile italiano, il Piccolo Teatro di Milano, implicitamente chiamato in causa in quanto teatro che gode dei più cospicui contribuiti statali.
Si è trattato di polemica alla fine molto superficiale. E non sono mancati gli insulti a Baricco, che si è pure preso dell’ubriacone da Nicola Piovani[5]. Dico subito che a mio parere l’argomentazione di Baricco ha dei punti non condivisibili o inopportuni. Non è possibile, per esempio, istituire un perfetto paragone tra mercato del teatro e mercato librario, anche se è pur vero che le logiche imprenditoriali su cui si regge l’editoria costituiscono per certi aspetti un buon esempio di conciliazione tra mercato e cultura.
Ma non sta qui, mi pare, il nucleo del discorso di Baricco. Si tratta invece di un discorso più in profondità, in qualche modo di carattere storico, pur nella sua sinteticità.

Quel che bisognerebbe fare è creare i presupposti per una vera impresa privata nell’ambito della cultura. Crederci e, col denaro pubblico, dare una mano, senza moralismi fuori luogo. Se si hanno timori sulla qualità del prodotto finale o sull’accessibilità economica dei servizi, intervenire a supportare nel modo più spudorato. Lo dico in modo brutale: abituiamoci a dare i nostri soldi a qualcuno che li userà per produrre cultura e profitti. Basta con l’ipocrisia delle associazioni o delle fondazioni, che non possono produrre utili: come se non fossero utili gli stipendi, e i favori, e le regalie, e l’autopromozione personale, e i piccoli poteri derivati. Abituiamoci ad accettare imprese vere e proprie che producono cultura e profitti economici, e usiamo le risorse pubbliche per metterle in condizione di tenere prezzi bassi e di generare qualità. Dimentichiamoci di fargli pagare tasse, apriamogli l’accesso al patrimonio immobiliare delle città, alleggeriamo il prezzo del lavoro, costringiamo le banche a politiche di prestito veloci e superagevolate.[6]

Il problema sta nel sistema di finanziamento pubblico al teatro, e s’era capito. Ora (e questo invece mi pare non si sia capito con chiarezza, forse anche a causa di un infelice titolo redazionale), Baricco non mette minimamente in discussione che lo spettacolo dal vivo debba essere finanziato, non dice di voler azzerare i fondi distribuiti dal FUS[7]. Mette semmai in discussione le modalità dell’intervento statale[8].
Sembrerà un paradosso, ma pare quasi di rileggere (in una versione aggiornata ai tempi nostri) un articolo che Paolo Grassi, fondatore e signore del Piccolo Teatro di fatto per oltre trent’anni, pubblicò nei primi mesi del 1948, mentre il governo si apprestava a varare la cosiddetta “Legge Andreotti” sul teatro (Decreto Legislativo 20 febbraio 1948, n. 62).

Il problema è e rimane, lo si voglia o non lo si voglia, un problema estremamente concreto, di struttura e non di aspirazioni sia pure sentimentalmente legittime. [...]
All’infuori di questa precisa istanza, per la quale la nostra scena di prosa deve staccarsi dalle vecchie e superate formule organizzative e diventare finalmente un teatro nazionale, ogni polemica, ogni conferenza, ogni aspirazione rimane mera ombra astratta.
[...] tutte le categorie dello spettacolo italiano, dagli esercenti ai capocomici, dagli artisti drammatici ai lavoratori dello spettacolo, sono state rappresentate e riunite in una commissione nazionale che, in unione con i funzionari del Servizio Teatro, ha studiato il cosidetto «da farsi».
Dopo lunghe sedute e dopo molti sforzi, sta per esser varata la nuova legge sul teatro [...]
Una volta «estorta» allo Stato per la povera scena di prosa una sommetta di alcune centinaia di milioni di lire, cosa farà il competente Servizio?
Distribuirà le «sovvenzioni» alle compagnie, in misura maggiore o minore non importa: darà da vivere a tutti e tutti saranno contenti, i capocomici, che ricominceranno a rischiare con i denari dello Stato, gli attori che vedranno nella loro congenita miopia risolto il problema del pane quotidiano, gli esercenti che avranno materia prima da offrire al pubblico.
Con le «sovvenzioni» si attua inoltre un ritorno all’«ancien régime» e bisognerebbe proprio che questa tecnica della «carità dello Stato al teatro» avesse funzionato a dovere, perché se ne debba riprendere l’uso corrente.
Ordunque, «sovvenzioni». Cioè, aiuti agli onesti e ai disonesti, alle iniziative sane e a quelle assurde, agli organismi solidi e alle imprese trasparenti, alle idee serie e alle megalomanie, all’arte e alla non arte [...].
Si aiuterà la grossa compagnia a carattere internazionale come la sparuta iniziativa provinciale e periferica che non porta (né può portare) alcun contributo al rinnovamento della nostra scena di prosa [...].[9]

Era diverso il contesto. Il problema, a quei tempi, erano ancora i cosiddetti trust  commerciali che dominavano la scena di prosa italiana. Ma il discorso di fondo è lo stesso: lo Stato non può pensare di intervenire con la logica della ‘mancia’, dando denaro cash un po’ a tutti. Sono necessarie riforme strutturali, una compiuta strategia di intervento a sostegno di una crescita dell’idea di teatro come luogo di cultura accessibile a tutti.




3. Noterella storica. Stabilità vs. sovvenzioni. L’avvento del primo stabile italiano e questioni di politica culturale.

È necessario fare un po’ di storia, per capire la situazione odierna[10].
Qualcuno ha parlato di una «doppiezza» di Grassi, che polemizza nell’articolo sopra citato contro le sovvenzioni nonostante sia riuscito a incassare un finanziamento governativo di 400.000 lire solo pochi mesi prima, nel novembre 1947[11]. Ma si trattava, per la verità, di una cifra largamente lontana dalle attese, dato che Grassi aveva presentato per la stagione 1947/1948 una richiesta complessiva di 6.000.000 di lire[12]. Non c’è in realtà doppiezza, almeno in questo senso. L’articolo è infatti nettamente orientato alla rivendicazione degli interessi e delle specificità del Piccolo Teatro; Grassi auspicava infatti un sostegno ad hoc per quei teatri che si pongono come pubblico servizio, per i teatri stabili.
Nel Progetto per il “Piccolo teatro della città di Milano”, presentato alla Vice Presidenza del Consiglio dei Ministri – Servizio del Teatro in data 5 febbraio 1947, Paolo Grassi insisteva col Servizio Teatro soprattutto sugli aspetti di gestione economica.

Desideriamo sia sottolineato il fatto che si tratta, in questo caso, del primo teatro a gestione municipale d’Italia in cui un comune prenda una iniziativa di tale genere, nel settore della cultura e in cui ogni speculazione privata viene tassativamente esclusa.[13]

È una affermazione funzionale alla presentazione del preventivo di entrate e uscite per la stagione inuaugurale, per la quale Grassi prevedeva un disavanzo di 1.800.000 lire. Questa è la cifra che venne formalmente richiesta allo Stato per l’avvio del Piccolo Teatro, e che in effetti Grassi ottenne per la stagione inaugurale. Con una annotazione conclusiva Grassi precisava la natura di tale richiesta, in coerenza con la diversa e nuova natura del Piccolo Teatro:

Importante: la cifra di £. 1.800.000 non deve intendersi in alcun modo concessa a titolo di sovvenzione a fondo perduto, ma solo concessa a titolo di assicurazione per eventuali perdite. In altri termini, qualora la perdita del teatro non raggiungesse la cifra di £ 1.800.000 nel corso della stagione, l’eventuale eccedenza verrebbe restituita al Servizio del Teatro oppure accantonata come anticipo sulla stagione 1947-1948. Ciò è possibile unicamente per il fatto che il “Piccolo Teatro della Città di Milano” avrà una gestione municipale, la cui amministrazione sarà controllata dalla ragioneria municipale e da revisori dei conti nominati dal Servizio del Teatro, dalla Prefettura e dal Comune di Milano.[14]

La sovvenzione ottenuta tempestivamente per la stagione inaugurale sembrava sottindere il riconoscimento, da parte del Governo, della peculiarità del Piccolo Teatro nel panorama del teatro italiano.
Ma all’atto di presentazione del preventivo, e relativa richiesta di sovvenzione, per la stagione 1947/1948, Grassi riceveva questa risposta:

Sono pervenuti a questo Servizio il prospetto della stagione che codesto Teatro intende svolgere nel prossimo anno teatrale e la relativa richiesta di sovvenzione di L.6.000.000.
Com’è ben noto a codesta Direzione, questo Servizio non dispone di fondi espressamente destinati a sovvenire al teatro di prosa, così come, sia pure in misura del tutto insufficiente, è per il teatro di musica; sono peraltro in corso gli studi per una riforma radicale delle norme attualmente in vigore per le sovvenzioni alle attività teatrali, così di musica come di prosa, nel quadro generale di un nuovo ordinamento di questo Servizio, ma è da prevedere che tali studi e le relative discussioni con le categorie interessate non potranno concretarsi in un disegno di legge se non tra qualche tempo.
In favore di codesto Teatro, quindi, non potrebbe che esaminarsi la possibilità – come si fece l’anno decorso – di concedere un modesto contributo sui fondi RAI. Non può per altro non considerarsi anzitutto che il gettito di detti fondi è, quest’anno, estremamente limitato, mentre il numero e l’entità delle richieste da parte di iniziative teatrali di ogni genere è cresciuto a dismisura, così che la Commissione incaricata di erogare tali fondi si trova e si troverà nelle maggiori difficoltà; e poi, che la sovvenzione concessa il decorso anno a codesta Istituzione ha suscitato critiche molteplici e malumori sia per il carattere eccezionale di essa, sia, e sopratutto, per il fatto che non venne rappresentato, nell’intera stagione, alcun lavoro italiano.
Sembra, pertanto, che per codesto Teatro meglio convenga attendere che siano concretati i provvedimenti organici a beneficio del teatro di prosa e che vengano, come si pensa, predisposti fondi adeguati del Tesoro.[15]

Ne seguirono una serie di missive al Servizio Teatro, in cui Grassi metteva di nuovo in evidenza la condizione del tutto particolare del Piccolo Teatro, assimilabile al Teatro alla Scala per statuto e finalità. E, in una lettera del 12 ottobre 1947, Grassi rimproverava quasi esplicitamente il Servizio Teatro di disperdere il danaro pubblico con sovvenzioni a iniziative di secondaria importanza:

Di fronte a un cartellone come il nostro, dovrebbero cadere tutte le riserve possibili: il negarci, sia pure giocoforza, ogni aiuto, significa stroncare a priori ogni nostra possiblità di vita.
Personalmente penso che il Servizio Teatro che ha aiutato parecchie piccole iniziative, come quella della Piccola Città, svuotata di un autentico interesse, debba fare tutto il possibile per impedire che un organismo come il nostro si esaurisca nel giro di poche settimane.
In attesa della nuova legge, in attesa di quelle che saranno le nuove decisioni, in attesa che il nostro progetto possa essere esaminato minutamente, abbiamo chiesto almeno un acconto immediato di un milione di lire, onde far fronte ai gravi rischi di questo inizio di stagione.[16]

In risposta Grassi otteneva, come si è accennato sopra, una sovvenzione di 400.000 lire, incassata poi soltanto nel febbraio 1948[17].
Non sorprende dunque la polemica che a inizio 1948 Grassi innescava contro le sovvenzioni a pioggia, riprendendo peraltro alcune argomentazioni già proposte due anni prima sulle colonne dell’«Avanti!».

Nessuno ha pensato di proporre diminuzione di tasse, diminuzione o abolizione di spese di viaggi, diminuzione di costi per affissione di manifesti, nessuno ha pensato a «compagnie di Stato», gestite direttamente dallo Stato, nessuno ha detto che i teatri comunali dovrebbero essere gestiti dai Comuni e strappati alla speculazione privata [...], nessuno si è battuto per le riforme di struttura, per i teatri stabili, per l’esportazione dei nostri spettacoli migliori, ecc., ecc.
Ha dominato, sincera o calcolata, entusiasta o sottile, una preoccupazione corporativa: gente di tutti i partiti si è affannata a chiedere denaro allo Stato [...].[18]

Grassi insisteva sull’idea di teatro stabile, inteso in quanto teatro pubblico con funzione di erogazione di servizi e formazione del pubblico, presupposto per la realizzazione concreta di un «teatro d’arte per tutti». La stabilità anzitutto come un nuovo modello produttivo, il più importante tentativo di riforma strutturale del teatro italiano che il sistema delle sovvenzioni che stava per essere emanato con la “Legge Andreotti”, elaborato secondo consuete e vecchie logiche, rischiava di rendere vano. È una persistenza, questa delle logiche di finanziamento di stampo fascista, che ancora negli anni Sessanta Grassi considerava uno dei mali più nefasti per il teatro italiano.

Noi siamo l’unico paese del mondo, ancora oggi, in cui seguendo il malcostume non delle sovvenzioni, ma delle sovvenzioni date secondo un tale criterio, tutte le volte che un sipario si apre, lo Stato interviene. La sovvenzione cioè non è accordata a Enti di carattere pubblico, ma a gestioni pubbliche come a gestioni private, e prescindere dal carattere artistico della manifestazione[19].

La polemica avviata a inizio 1948 contro il sistema delle sovvenzioni era in fondo un côté, ora condotto sul versante delle riforme strutturali, della ormai lunga polemica relativa alla affermazione della regia in Italia. Il Comitato per il Teatro Nazionale, che era andato formandosi in quei mesi, raccoglieva, attorno al fronte di una comune battaglia per  la promozione degli enti teatrali comunali in Italia, molti dei nomi che già almeno dagli inizi degli anni Quaranta avevano fatto della regia altro fronte comune.
Basti leggere una lettera che Gerardo Guerrieri inviava a Grassi nel luglio 1947:

Colgo l’occasione col dirti che abbiamo fondato l’Ente per il Teatro Nazionale; esso è emanazione del Comitato per il T.N. che a suo tempo fece il manifesto Salvini. Questo ente, di cui è presidente Salvini, e ha come membri i firmatari del manifesto (te, Alvaro, D’Amico, Costa, gli scenografi ecc.) si propone l’obiettivo principale di promuovere e rappresentare enti teatrali comunali in tutta Italia. Esso rientra nella prossima legge per il teatro, e ci proponiamo di agire immediatamente anche a Roma. Io ne sono segretario, e ti informo che sei stato nominato membro del Consiglio direttivo (composto da Salvini, Guerrieri, Stoppa, Alvaro, Grassi, Piccinato).[20]

Quasi contemporaneamente, e con ogni probabilità ancor prima di ricevere la missiva di Guerrieri, Grassi scriveva, informato qualche giorno prima da Salvini circa l’iniziativa del Comitato per il Teatro Nazionale[21]:

Cerchiamo di scatenare un’agitazione su scala nazionale, cerchiamo tutti uniti di riuscire a manovrare tutte le leve dello spettacolo italiano, cerchiamo di superare i nostri dissidi interni, formando un nucleo vivo e operante di pochi attivi e competenti, escludendo gli abborracciatori e gli arrivisti.[22]

E ancora, di lì a pochi giorni:

È necessario che scateniamo una campagna nazionale di sia pure parziale realizzazione e di violenta polemica contro la vecchia scena di prosa italiana. Sta a noi l’inserire o no, su un piano Internazionale, il nostro spettacolo di prosa.[23]

La strategia di Grassi risulta evidente: il Piccolo Teatro non doveva solo porsi come ente comunale a gestione municipale ma come modello da esportare su scala nazionale. Di lì a pochi mesi, il 31 ottobre 1947, Grassi scriverà a Gian Maria Guglielmino, a proposito del nascente Teatro d’arte della città di Genova: «vive congratulazioni e fervidi auguri per il mio primo figlio»[24]. La proliferazione del modello del Piccolo si profilava come unica soluzione possibile allo svecchiamento del sistema teatrale italiano. Maturava forse in Grassi la coscienza, date le logiche corporativistiche che dettavano legge in materia teatrale, di costituire progressivamente una sorta di corporazione dei teatri d’arte comunali che fungesse da compatto gruppo di pressione in sede politica. Se in Grassi ci fu una certa ‘doppiezza’, essa si manifestò nella dialettica tra le continue proposte di aggiornamento e la capacità di adeguamento al sistema in essere.
È la coscienza che la stabilità sarà non solo l’esito finale ma anche il presupposto di un nuovo modo di operare che ancora andava conquistato in Italia. Ma non fu certo un Comitato per il Teatro Nazionale a difendere gli interessi del Piccolo Teatro presso il Governo. È forse vero che Grassi aspirasse, almeno nelle primissime intenzioni degli esordi, alla definzione del Piccolo Teatro come “teatro nazionale”, da ottenere gradualmente, con un passaggio di gestione dal comune allo Stato[25]. Claudio Meldolesi sosteneva che questa ipotesi fu bocciata in sede politica, e il modello divenne la Scala[26]. Le norme statutarie per la verità sembrano definire ab initio l’intenzione di riproporre, sul versante del teatro di prosa, il modello istituzionale degli enti lirici. E leggiamo, del resto, quanto Grassi scriveva al Servizio Teatro, a poco più di sei mesi dalla inauguarazione del Piccolo:

Mi sembra che l’Ente del Piccolo Teatro abbia, per la sua struttura organizzativa e per i suoi fini artistici, un compito da assolvere. Questo compito può somigliare al compito che hanno gli Enti Autonomi lirici per i quali è prevista, e a priori, decisa, una sovvenzione del Governo.
Se si ritiene che il Piccolo Teatro di Milano debba svolgere un programma d’arte, senza dare adito alla speculazione privata, con prezzi inferiori a quelli dei Teatri normali, con un’azione organizzativa atta ad attrarre verso il Teatro i più larghi e diversi strati di pubblico, soprattutto popolare, se al Piccolo Teatro è riconosciuta questa funzione tipica e che solo il Piccolo Teatro (e non il Teatro a gestione privata, e non la compagnia di giro) può svolgere, il Servizio Teatro non può tradirlo nel momento in cui esso si appresta a vivere il suo primo lungo anno di vita.
Anzitutto si tratta di difendere una richiesta di sovvenzione in lire sei milioni, da noi avanzata e che noi ripetiamo con tutte le nostre energie, perché ci sia dato il mezzo di realizzare con un programma che ha suscitato il più largo plauso; il non concederci questa sovvenzione significa comunque impedire la completa realizzazione del programma annunciato ed assumersi tale responsabilità.
In secondo luogo, una volta acquisito il concetto che il Piccolo Teatro deve essere aiutato e fiancheggiato dal Governo, si tratta di concedergli il lievito iniziale di vita.[27]


Questi sono i punti che secondo Grassi definiscono l’eccezionalità del Piccolo Teatro rispetto ai «teatri normali»: struttura organizzativa, programma d’arte, assenza di speculazione privata, prezzi inferiori al normale al fine di attrarre diverse categorie di pubblico. È solo l’inizio di una serie di lettere con cui Grassi rivendicava una attenzione privilegiata al proprio teatro, chiamando direttamente in causa anche il Sottosegretario di Stato Giulio Andreotti:

La solidarietà del Governo a tutt’oggi è stata espressa nella assai misera somma di L. 383.000.
Le possibilità di resistenza del Teatro sono ormai esaurite: è questo l’ultimo appello che rivolgiamo al Governo perché studi la possibilità di intervenire immediatamente a nostro favore.
Il ritardare ulteriormente una pratica solidarietà al nostro Ente, significherebbe, ignorandone la contingenza, predisporne la fine. In tale spirito, la conoscenza di un lavoro importante compiuto nel quadro del rinnovamento dello spettacolo italiano, mi permetto di chiedere il suo personale intervento affinché la nostra richiesta di sovvenzione sia integralmente accolta e perché un’ulteriore congruo acconto ci venga concesso con la più ansiosa urgenza.[28]

E Andreotti interveniva tempestivamente: faceva concedere al Piccolo acconti di 300.000 lire in data 17 marzo 1948[29], di 2.500.000 lire in data 1 aprile 1948[30] e 3.800.000 lire il 25 maggio 1948[31]. Nicola De Pirro, in data 29 marzo, annunciava invece di aver fatto includere, nelle norme per la distribuzione dei fondi previsti dalla Legge Andreotti, «con qualche fatica, anche delle disposizioni che riguardano i teatri stabili»[32]. Il giorno successivo alla pubblicazione del regolamento, la Presidenza del consiglio deliberava a favore del Piccolo Teatro «un ulteriore contributo di L. 4.000.000 (quattromilioni) a titotolo di concorso dello Stato nelle spese di impianto per l’attività artistica da attuare nella stagione 1948/1949»[33].
Le norme attuative della legge Andreotti erano state emanate a fine luglio 1948 e contenevano finalmente disposizioni ad hoc per il finanziamento dei teatri stabili (ma, di fatto, del solo Piccolo Teatro, unico a vedersi esplicitamente riconosciuto tale status).

Saranno sovvenzionati:
a) Piccolo Teatro di Milano;
b) Eventuale altro teatro stabile in Roma.

Le condizioni per l’intervento dello Stato nel sovvenzionare i due teatri stabili suddetti sono le seguenti:
1) che dispongano di un teatro che abbia le attrezzature necessarie per l’agibilità artistica e per una normale decorosa ricezione del pubblico;
2) che si impegnino a svolgere un’attività teatrale attuando impegni con un complesso artistico di qualità e possibilmente con doppi ruoli o la cui durata sia almeno di un anno;
3) che svolgano  un repertorio scelto con criteri d’arte, riservando agli autori italiani classici e contemporanei un adeguato posto;
4) che sottopongano all’esame della Direzione Generale dello Spettacolo i bilanci preventivo e consuntivo e tutti gli atti straordinari di amministrazione;
5) che abbiano una direzione artistica qualificata la cui nomina dovrà essere approvata dalla Direzione Generale dello Spettacolo.[34]

Si tratta del primo atto di formale riconoscimento del Piccolo Teatro in quanto (primo) teatro stabile, ma anche dell’avvio ufficiale di un processo che diventerà di respiro nazionale, tanto da «investire l’intero sistema [teatrale] nazionale, spostandone l’assetto di base attraverso il capillare impianto di istituzioni pubbliche non soggette ai condizionamenti di mercato»[35]. Si trattò, come ha sottolineato Tessari, di processo che risultò difficoltoso e fu forse incompiuto se è vero che esso non riuscì di fatto a configurare un soggetto tanto forte da far valere il proprio peso circa le questioni di politica culturale relative allo spettacolo[36]. A livello di logiche ministeriali cambiò poco. Perdurò nei decenni, nella sua sostanza, il sistema delle sovvenzioni, al punto che ancora oggi si attende una legge organica che strutturi in maniera razionale il sistema teatrale italiano. E forse ciò avvenne, ci pare di capire, ab origine, anche a causa di una certa posizione egemonica conquistata dal Piccolo Teatro e indotta anche dal Governo, con interventi mirati sì al fondamentale sostegno della stabilità, ma entro logiche di politica culturale che risentivano in fondo di una eredità ben radicata entro i servizi dello Stato. Le disposizioni relative ai teatri stabili appaiono, più che come tentativo di rinnovamento sistemico del teatro italiano, una soluzione ad hoc finalizzata a risolvere la questione Piccolo Teatro; quindi, nei fatti, una sovvenzione particolare a un organismo particolare, sorto aldifuori delle logiche vigenti (ma in fondo entro di esse reintrodotto sul versante del sistema di finanziamento pubblico al teatro)[37].
Si tratta di aspetti di politica culturale, che meriteranno una maggiore attenzione rispetto a quella che vi abbiamo potuto riservare in questo intervento[38].
La stessa ipotesi di un “geniale e inconscio” “compromesso storico ante litteram” che almeno dal 18 aprile 1948 affiderebbe alla sinistra la gestione della cultura[39], accettabile forse come macro-categoria (ma ne riparleremo), andrà indagata più dettagliatamente per quel che concerne le questioni teatrali. Se non altro andrà evidenziata la sostanziale continuità, almeno a livello delle dirigenze statali circa le questioni teatrali, con gli anni Trenta. Nicola De Pirro e Franz De Biase rimangono saldamamente ancorati ai posti loro affidati dal regime, rispettivamente direttore e ispettore del Servizio Teatro. La “legge Andreotti”, abbiamo visto, ristabiliva con grande disappunto di Grassi il sistema delle sovvenzioni a pioggia. Il sostegno pubblico agli enti teatrali creati dal Fascismo (a partire dall’ETI) viene confermato. E pensiamo, inoltre, al ruolo che ebbe il sottosegretario di Stato Andreotti per quel che riguarda gli stessi finanziamenti al Piccolo Teatro. Del resto, la stessa dipendenza del Servizio Teatro al sottosegretariato in quanto articolazione della Presidenza del consiglio si configura come una eredità fascista, in virtù della quale Giulio Andreotti governò di fatto il teatro italiano dal 1947 al 1953.
La fondazione degli stabili fu senz’altro l’unica grande novità entro una linea di continuità (di «trasformazioni senza fratture» ha parlato Tessari) con il sistema instaurato dal Fascismo[40]. E non ci si dovrà dunque stupire se l’idea di teatro stabile come servizio pubblico andò progressivamente definendosi come novità in cui tuttavia notiamo il permanere di certe residuali eredità fasciste che porteranno presto a ricadere entro i nefasti criteri della lottizzazione politica.
Le logiche dell’intervento pubblico in materia teatrale si configurano indubbiamente nei termini di una persistenza nel contesto della cultura teatrale italiana. Esse furono anche strumento di discontinuità nel momento in cui furono orientate (dagli uomini di teatro che se ne avvalsero) a rompere con la tradizione del teatro all’antica italiana. E ciò fu evidente nel concreto lavoro del teatro, nella gestione del lavoro con gli attori, nella conquista della stabilità, nella intercettazione e formazione di un nuovo pubblico, nell’affermazione della regia. Una complessa dialettica, tra persistenze e discontinuità, destinata a pesare nei decenni successivi sulla struttura del sistema teatrale italiano.




4. Teatro monopolio di Stato.

E poi cosa successe, dopo la Fondazione del Piccolo, con il corrolario delle vicende che portarono al suo riconoscimento come Teatro Stabile?
Successe che quel modello venne replicato, a volte scimmiottato, in tutta Italia, con l’esito che a oggi abbiamo diciassette Teatri Stabili pubblici, cui si aggiungono trentanove Teatri stabili di Innovazione, cui ancora dobbiamo aggiungere quindici Teatri Stabili ad iniziativa privata[41].
Varrà la pena ancora rileggere Grassi: «Noi siamo l’unico paese del mondo, ancora oggi, in cui seguendo il malcostume non delle sovvenzioni, ma delle sovvenzioni date secondo un tale criterio, tutte le volte che un sipario si apre, lo Stato interviene»[42].
Questo è IL problema, anche se non lo si vuole vedere.
Non è questo il luogo di una critica a uno stato di cose protrattosi nei decenni. Ma varrà la pena sempre tenere presente lo stato delle cose come il risultato di dimensione necessitante, ma non per forza necessaria, insita nel teatro italiano; guardare a come il sistema degli Stabili, oggetto negli ultimi tempi di non velate critiche, si sia costituito non come migliore dei mondi possibili, ma entro le storture di un sistema che viene da lontano, dagli anni di egemonia culturale di una cultura che è stata consapevolmente rimossa (ed è un ossimoro che dovrebbe indurci a non credere troppo a una rimozione effettiva). Per un lungo periodo il solo fatto di dire che il sistema teatrale italiano di oggi altro non era che una eredità fascista non poteva che risultare politicamente scorretto. Andava detto semmai con mille sotterfugi retorici, o con una vena di biasimo critico verso un periodo su cui gettare un colpo di spugna.
Con maggior chiarezza andranno forse invece dette le cose come stanno. Cioè come si è storicamente configurato il sistema teatrale italiano, entro un contesto di persistenze strutturali entro gli apparati dello Stato democratico di una serie di opzioni procedurali che furono avviate nel periodo antecedente. Insomma, che il sistema teatrale italiano è come è anche perché è stato come è stato. Che le modalità di finanziamento pubblico al teatro (con il loro côté della lottizzazione politica) di oggi sono eredi di quello che fu il paternalismo fascista (e forse non deriva ancora da lì una certa mentalità che si vorrebbe tipicamente italiana e che qualcuno vorrebbe riconoscere oggi solo come persistenza sessantottina?).
Per uscire da discorsi fuorvianti bisognerà tentare di affermare con forza, secondo una linea che mi pare condivisa da diversi e lucidi storici contemporanei, che la storia che ci è stata pacificamente (e forse con intenti pacificatorî) raccontata per tanto tempo, cioè della cosiddetta egemonia culturale della sinistra in Italia, di una sorta di compromesso storico ante-litteram a partire almeno dal 1948, che vede la spartizione dei poteri tra DC e sinistra (alla prima quello della gestione esecutiva, alla seconda quello della cultura) è una delle più grandi mistificazioni storiche della nostra età contemporanea. È quasi una leggenda metropolitana. Certo leggenda ben costruita, che forse nemmeno i suoi protagonisti hanno riconosciuto come tale (appunto, metropolitana). Ma pur sempre leggenda, cioè racconto mitico in cui alla fine ci sono dei vincitori, sanciti come eroi dopo una lunga quête, e per questo dotati, si dice, di una moralità in qualche modo superiore. Quasi il tentativo di rendere effettivo il discorso gramsciano sulla presa di potere dell’intellettuale nella società. Ma possibile appunto solo nella forma della leggenda, o dell’utopia, dato il mancato (sempre procrastinato) concretizzarsi di una pretesa egemonia culturale in potere reale (e dunque di gramscianesimo dimidiato si è trattato, ché dal dominio della cultura al governo reale si sarebbe dovuti arrivare per esito naturale).
Che poi alla direzione del primo teatro stabile (e in genere dei successivi stabili) vi fossero uomini di sinistra poco importa ai fini di questo discorso. Perché il vero padrone del teatro italiano era (ed è tutt’oggi) lo Stato italiano. Agli inizi era poi evidente l’eredità fascista (Servizio Teatro alle dirette dipendenze della presidenza del Consiglio)[43]. È un dato di fatto essenziale per cogliere il teatro italiano dell’epoca repubbicana in stato di invenzione, statu nascenti si diceva una volta. L’oggi è lo specchio di ieri. E oggi il dato di fatto è che lo Stato ha nei fatti il monopolio del teatro. Non si dà iniziativa teatrale senza che vi sia un sostegno pubblico (piccolo o grande che sia), provenga esso dal governo centrale (specie attraverso il FUS) o dai poteri locali (regioni, comuni, province, comunità montane ecc.). Al punto che senza tale sostegno è impensabile per chiunque pensare di dare avvio a una qualsivoglia attività teatrale.
Sia chiaro, non siamo contro il sostegno pubblico al teatro. Diciamo anzi chiaramente e una volta per tutte che il teatro non può prescindere dal sostegno della collettività, che il finanziamento pubblico al teatro è necessario. Siamo semmai critici verso le modalità con cui tale sostegno è stato e continua a essere dato. Non è certo questo il luogo per proporre soluzioni (politiche, strutturali) a un problema. Semplicemente è un tema che ci sta a cuore perché si tratta di una questione che attende ancora, per molti aspetti, di essere storicizzata.
Non vi è stato nell’Italia del secondo dopoguerra un reale tentativo di riforma strutturale del teatro italiano. La volontà di trasformare il sistema delle sovvenzioni in un sistema nuovo che (a parità di risorse messe in campo) fosse di effettivo sostegno al teatro. È quello che diceva Grassi: sono mancate le riforme strutturali. Perché, invece di dare denaro cash, non detassare per esempio per intero, o parzialmente ma in maniera consistente gli incassi? Perché non agevolare le compagnie di giro o le tournées con un aiuto concreto sul versante dei trasporti? Perché non garantire la presenza dei vigili del fuoco a costo zero? Sembra una sciocchezza questa. Ma perché prendere dei soldi pubblici e spenderli per pagare un altro servizio pubblico? Tanto vale versarli direttamente ai pompieri quei soldi (perché farli passare così di mano?). Capiamo che non è una sciocchezza. Un gruppo di giovani che volesse aprire un suo teatro, senza la sovvenzione dello Stato, come potrebbe permettersi di pagare i pompieri al prezzo di mercato che i teatri sovvenzionati hanno definito dentro le (loro) regole di ‘mercato’?
Certo, andrebbe anche tolta di mezzo, da subito, una regola che davvero appare sovietica: che il teatro pubblico non possa fare profitti ma debba sempre chiudere in pareggio è una follia deprimente, disincentivo paradossale che si traduce spesso nell’ineluttabilità dei “buchi di bilancio”. È ovvio, con stipendi dei dirigenti in certi casi esagerati (esagerati in relazione al fatto che stiamo parlando di un servizio pubblico[44]) e nessun incentivo al profitto per decenni si è andati avanti senza cambiare molto in Italia. Si abbassino, come si è detto, gli stipendi, si consenta ai teatri di fare profitto, si introducano così corposi incentivi (cioè si premi col ‘mercato’ i dirigenti migliori, cioè che dimostrino di essere tali)[45]. Qualcosa cambierà sicuramente. Potrà sembrare stupido: ma perché il primo teatro stabile italiano solo da pochi mesi, con estrema difficoltà e solo per la volontà ferrea del suo direttore, è riuscito ad aprire un bar aperto alla città tutto il giorno? È antieconomico? O ci sono altre motivazioni? Si pagano troppe tasse forse (questo è un altro capitolo del discorso). Perché a Londra o a Berlino è così diverso?
Sono questioni sistemiche queste, che spiegano forse anche come mai nel teatro italiano, da un certo punto in avanti, è diventato sempre più difficile che dei giovani (magari di 26 e 28 anni, questa l’età di Strehler e Grassi nel ’47) potessero riuscire in Italia non solo a costruire qualcosa di stabile, duraturo, artisticamente riconosciuto a livello mondiale; non dico fondare un Teatro Stabile, che fu agli inizi una idea di giovani e che solo i giovani potevano e volevano realizzare (come la regia in Italia, del resto) e che poi divenne isituzionale (con quel che ne consegue a livello di reclutamento), ma semplicemente ad aprire un teatro, a fare il teatro come si deve, e, soprattutto, a porre le condizioni per farlo durare per più di una generazione. A un certo punto anche i teatri dei giovani degli anni Settanta e Ottanta, nei casi in cui non siano riusciti a conquistare la stabilità pubblica, hanno chiuso, o sono stati assorbiti dentro la macchina di altri stabili (pensiamo alle vicende di Teatro Settimo divenuto inizialmente costola del Teatro Stabile di Torino; ne doveva diventare il ramo “innovazione”, e vennero firmati accordi ufficiali in tal senso, poi inspiegabilmente morti sulla carta).
E il tutto spiega anche come mai oggi non sia possibile aprire (e soprattutto far vivere) un qualsiasi teatro, piccolo o grande, centrale o periferico, senza una minima volontà politica che se ne faccia carico. È l’esperienza di tutti i giorni, che tutti conosciamo. Ci sembra normale che sia così. Ma è così perché si tratta nei fatti di un sistema blindato, un monopolio, necessitante dunque pur non essendo necessario.



5. Il teatro e le politiche della cultura

È evidente che siamo andati a toccare, forse in modo un po’ crudele, questioni connesse a una politica culturale protrattasi per decenni e che, per una serie di motivi sia contigenti sia strutturali, sembra oggi non funzionare più.
È un problema ancora da storicizzare. L’Italia ha fatto una gran fatica (in ritardo, per esempio, di 268 anni rispetto alla Francia) a riconoscere che il teatro è un servizio pubblico che per vivere ha bisogno del sostegno dello Stato. Lo Stato liberale italiano, a partire dal secondo Ottocento, si segnala per la totale indiferrenza nei confronti del teatro di prosa (non così per la lirica, «a dimostrazione del fatto che è nell’ambito del melodramma che si realizzano alcune istanze unitive dal punto di vista della coscienza nazionale e della risposta di popolo ai valori celebrati nell’ambito della lirica»; una dissimmetria che del resto continua sino a oggi, con  un intervento finanziario dello Stato nettamente sproporzionato a favore dei teatri lirici[46]).
Nel secondo dopoguerra si trattava di portare l’Italia, su questo specifico terreno, a livello delle altre nazioni europee.
Fu il Piccolo Teatro a farlo. Non si fa la storia con i se e con i ma. Ma la storia del teatro italiano ci dice che senza la pugnacia di Paolo Grassi l’affermazione dell’idea di Teatro Stabile sarebbe stata a lungo ulteriormente procrastinata dalle dirigenze statali.
Anche solo per questa motivazione, per la sua funzione storica, il Piccolo Teatro di Milano meriterà di essere sostenuto dallo Stato in eterno. Dovrebbe avere per noi il valore che ha la Comedie Française per i francesi.
Quale è stato però il problema?
Che l’idea del teatro stabile venne dal basso, fu recepita dallo Stato, ma dentro un sistema e logiche di sovvenzionamento pubblico al teatro ancora di matrice fascista. Cioè sovvenzioni a pioggia, che danno un po’ a tutti, affinché tutti siano contenti, con una mano diretta del governo entro le dinamiche della cultura (e questa, sia detto tra parentesi, non era certo una opzione obbligata se, negli stessi anni in cui in Italia si facevano queste scelte, in Inghilterra Keynes pensava e faceva istituire l’Arts Council, fondata sul principo della “interposta persona” anche al fine di slegare la cultura dalle mani dirette della politica).
Questo spiega anche la proliferazione del modello Piccolo Teatro. Ogni grande, media, finanche piccola città italiana ha voluto il suo “teatro comunale a gestione municipale”. E lo Stato è sempre stato lì, pronto a dare per avviare, e poi a dare anche di più per chiudere disastrosi buchi di bilancio (e anche questa è stata una perversione del finanziamento pubblico al teatro: teatri che ricevono tot e poi spendono di più, oltre il budget, sempre con troppa fiducia forse nel futuro o forse nella provvidenza; ma oggi non sono più i tempi e per la verità qualcosa si muove: nel 2009 il Teatro Stabile di Torino non ha realizzato I demonî di Stein: sforava troppo il budget previsto. E dunque non si è fatto, in barba al fatto che si trattasse di Peter Stein. Sembra una cosa rivoluzionaria, mentre dovrebbe essere la normalità. Va poi detto che Stein ha continuato egregiamente e in autonomia il lavoro, mettendoci del proprio, realizzando uno degli spettacoli più memorabili degli ultimi dieci anni. Cosa vuol dire? Solo che è tutta colpa dello Stabile di Torino, come si sente dire, o più semplicemente che quello spettacolo epocale poteva essere fatto senza per forza spendere cifre faraoniche, o quanto meno rispettando il budget – tutt’altro che irrisorio - che quello Stabile si era impegnato a coprire?).
Ora, «Stato pronto a dare» vuol dire in Italia soprattutto amministrazioni locali. Si tende a dimenticarlo, perché quasi tutti i teatranti d’Italia piangono in continuazione i progressivi tagli del FUS, scordandosi invece sempre di dichiarare quanto ricevono dai poteri locali[47].
Anche qui vi sono ragioni storiche. Lo stato liberale italiano del secondo Ottocento, a partire da una concezione del teatro come appartenente alla cosiddetta sfera voluttuaria, aveva in qualche modo sollecitato le amministrazioni locali a farsi carico di questo interesse particolare. È in questo periodo che si assiste all’acquisto e alla costruzione di molti teatri da parte delle municipalità italiane, sia nelle grandi città sia nei borghi medio-piccoli. La combinazione di neutralità dello Stato e sistema impresariale di gestione di questi teatri fu causa non secondaria dell’espansione e proliferazione del teatro itinerante e grandattorico nell’Italia di fine Ottocento[48].
Lo Stato autoritario e poi democratico tentarono di definire un processo di razionalizzazione del sistema teatrale italiano. Ma le logiche del localismo rimasero per forza di cose stringenti, a partire dalla fondazione dei primi Stabili, che furono anzitutto teatri municipali. E, soprattutto, più in generale, con un preponderante appalto ai poteri locali della gestione delle risorse genericamente destinate alla cultura.
Negli ultimi decenni è risultata evidente la tendenza a una deriva incontenibile. Tanto che forse il vero problema oggi non sta semplicemente negli Stabili (che pur andranno radicalmente ripensati), ma ancora, quasi fenomeno carsico che riaffiora costantenemente, tutte le iniziative minori, medie, piccole o piccolissime, a volta smaccatamente marginali promosse dagli enti locali.
E poi tutti i comuni ormai vogliono la loro notte bianca, i loro eventi piccoli e grandi, così i sindaci e assessori finanziano, in maniera bipartisan. Tutti gli assessori alla cultura vogliono il loro festivalino, la loro sagra (della patata o della mela cotta), il concertino e in alcuni casi il concertone (ovviamente gratuito per i cittadini ma non per i contribuenti, in piazza).  E poi ci sono anche i teatri dei paesini, dove vengono magari ospitati comici come i Fichi d’India (duo di un certo successo all’inizio degli anni Deumila). I cittadini pagano il biglietto 20-25 euro per due grasse risate e magari l’assessore ha anche tirato fuori altri 1000-2000 euro per l’organizzazione, oltre ad aver concesso in certi casi la sala teatrale comunale in uso gratuito[49]. Si tratta dei Carri di Tespi dei giorni nostri, con un ovvio e inquietante cortocircuito con certa offerta dell’attuale televisione italiana.
Sono fiumi di denaro pubblico che se ne vanno in questo modo attraverso le amministrazioni locali. Non possiamo nemmeno immaginare quanti (ma possiamo facilmente ipotizzare una cifra nel complesso largamente superiore all’intero FUS). E nessuno in fondo se ne scandalizza. Perché sono i soldi destinati alla cultura.


6. Il teatro è necessario (?)

Rimane infine da trattare forse il punto più dolente della situazione italiana, affrontato per certi versi anche dall’articolo di Alessandro Baricco citato in apertura. Quello che più dovrebbe far soffire i teatranti, quello su cui essi di più dovrebbero fermarsi a riflettere.
La lunga stagione teatrale del dopoguerra ha definitivamente sancito che il teatro è necessario, che la sua differenza di incontro vivo va salvaguardata nel contesto dei media. Che il teatro in fondo è un luogo di igiene mentale. Ma lo è se il teatro viene mantenuto come un posto pulito, illuminato bene. Lo è ancora davvero pienamente? Siamo così sicuri che oggi l’idea di teatro per tutti risponda ancora alle esigenze che spinsero alla sua realizzazione? Ha oggi il teatro quella funzione fondamentale di formazione di una coscienza civile che ha avuto nel dopoguerra? È ancora un fondamentale strumento di civiltà, di formazione di coscienza, su cui bisogna investire?
Sono domande retoriche. Lo è ancora, indubbiamente. Ma in forme diverse, e con un ruolo diverso rispetto all’immediato secondo dopoguerra.
Su questo Baricco ha forse ragione. E ha ragione per un semplice fatto: negli anni in cui in Italia si fondavano i primi teatri stabili la televisione non esisteva; arrivò di fatto solo una decina di anni dopo la fondazione del Piccolo Teatro di Milano. E fu poi per svariati anni una televisione dalla spiccata funzione pedagogica, un grillo parlante nazionale. Divenne poi come oggi la conosciamo solo dopo qualche decennio.
Il ‘ritardo’ italiano in materia di teatro pubblico è stato letale da questo punto di vista.
Si affermava, dal basso e faticosamente, l’idea di “teatro d’arte per tutti”, dello Stato come garante e promotore di un teatro di qualità, accessibile alla maggior parte della comunità, gesto irrinunciabile per la collettività. Avrebbe potuto anche attecchire, diventare patrimonio e bene comune, ma mancò anzitutto il tempo. Le forme del consumo televisivo diventarono in Italia gesto collettivo prima che lo diventasse una certa idea di teatro. Il tempo poteva anche essere recuperato, con una consapevole e duratura opera di alfabetizzazione al teatro (e alla musica e all’arte in genere) attraverso la scuola e i nuovi strumenti della comunicazione. Certo, si fece molto teatro in televisione, ma era la televisione a chiederlo; cannibalizzava il teatro per trovare un proprio linguaggio; e dopo averlo trovato mise il teatro alla porta. Non a caso da parte dei teatranti furono enormi gli sforzi, ancora, tra anni Sessanta e Settanta (basti ricordare le esperienze di decentramento promosse dallo stesso Piccolo Teatro) finalizzati a intercettare un pubblico che non fosse quasi esclusivamente di estrazione borghese e di istruzione medio-alta. Fu un successo? Probabilmente sì in quel momento, molto parziale se guardiamo alla situazione odierna. A volte i teatri sono strapieni, a volte semivuoti. Non è vero che a teatro vanno solo i vecchi e giovani non si vedono. Se ne vedono anzi moltissimi. Ma non è quello che conta. Frequentando i teatri italiani, salvo certi casi eccezionali spesso connessi a fenomeni di rimediazione teatrale dei successi televisivi, si ha l’impressione che manchi una qualsiasi trasversalità, non dico a livello sociale, ma a livello culturale. Certo, il teatro è per pochi, per suo intrinseco statuto. Il problema è che viene collettivamente percepito per pochi, per quei pochi che possono permetterselo, non solo e non tanto economicamente, ma soprattutto intellettualmente. È questa percezione collettiva del teatro, come fatto snobbistico ed elitario, intellettualistico (con tutte le sfumature spregiative del termine) che rischia di decretarne la definitiva rimozione. La marginalità del teatro è certamente un valore, ma lo è finché esso viene percepito colletivamente come luogo, intimo e appartato, in cui è possibile riconoscersi come gruppo coeso disposto all’esercizio della propria libertà (libertà di essere presenti, e, proprio perché in praesentia, riconoscersi su un territorio comune, dove è possibile esprimere giudizi critici e non semplicemente subirli).
La marginalizzazione invece non è più un valore, ma una s-valutazione, nel momento in cui un gesto antico viene dalla grande maggioranza delle persone percepito come antiquato. Sta qui la sconfitta dell’idea di teatro pubblico in Italia. Paolo Grassi parlava di un teatro che doveva essere considerato alla stregua della metropolitana e dei vigili del fuoco; oltre sessant’anni dopo, per colpa non certo dei soli teatranti ma soprattutto di una politica culturale di sovvenzionamento ai teatri accompagnata dal contestuale e progressivo venir meno, invece, di un reale sostegno alla cultura del teatro nei luoghi deputati alla formazione delle nuove generazioni (dalla scuola alla televisione – ha ragione da vendere Baricco su questo punto), abbiamo il timore che gli italiani oggi scenderebbero (forse) in piazza nel caso in cui venissero aboliti i mezzi di trasporto pubblico, ma di certo protesterebbero solo flebilmente, finanche per la maggioranza guardando con un certo biasimo i teatranti in sciopero forzato, se fosse abolito qualsiasi sostegno pubblico al teatro.



[1] Così risulta da riparto firmato dal ministro il 4 marzo 2010 e approvato dalla Corte dei Conti il 23 aprile 2010.
[2] È una preoccupazione di fondo che mi sembra sottesa anche in un recente articolo di Gabriele Vacis, La cultura tra barbari e sprechi, «La Stampa», 28 settembre 2010: «Apprezzo moltissimo la tenacia con cui i responsabili delle istituzioni culturali, in questi giorni, tentano di difendere quel poco che rimane. E voglio ringraziarli perché sono certo che, in buona fede, pensano di lavorare per me e per quelli che come me hanno il privilegio di realizzare le proprie fantasie con i soldi pubblici. Ma io, davvero, vorrei che quella tenacia fosse indirizzata alla riorganizzazione profonda delle istituzioni. Secondo me è questo che vogliono i politici e gli amministratori: che le grandi fondazioni si trasformino in ambienti culturali che lavorano secondo principi di sobrietà e di valorizzazione delle risorse. Come si è inventato “Slow food”, vorrebbero che si inventasse una sorta di “Light Theatre” in sintonia col proprio territorio, che è condizione indispensabile per affrontare il grande tema della mutazione. Allora gli amministratori pubblici sarebbero fieri dei loro artisti. Difenderebbero le istituzioni culturali. E, visto che davvero parliamo di una goccia nel mare dei bilanci pubblici, i finanziamenti alla cultura potrebbero anche aumentare, come sarebbe giusto proprio in tempi di crisi».
[3] Precedeva per la verità di circa un mese l’intervento di Alessandro Baricco, senza tuttavia suscitare particolari attenzioni, l’articolo di fondo di Salvatore Carrubba, L’ombrello del Fondo spettacolo non può coprire tutti, «Il Sole 24 Ore», 28 gennaio 2009.
[4] Alessandro Baricco, Basta soldi pubblici al teatro. Meglio puntare su scuola e tv, «La Repubblica», 24 febbraio 2009.
[5] Cfr. Anna Bandettini, Il teatro replica a Baricco, «La Repubblica», 25 febbraio 2009.
[6] Baricco, Basta soldi pubblici.
[7] Orientato in questo senso invece anche il commento di Oliviero Ponte di Pino, Il bambino e l’acqua sporca. La proposta di Baricco di azzerare i fondi per il teatro, «ateatro», 120.10, leggibile all’indirizzo http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=120&ord=10. Si leggano sempre in «ateatro» (http://www.ateatro.it), rivista che si è caratterizzata tra l’altro negli ultimi anni per le aspre critiche verso il sistema di sostegno pubblico al teatro, i seguenti articoli contro le pseudo-posizioni baricchiane: Franco D’Ippolito, Caro Baricco, che ognuno cerchi di fare al meglio il proprio mestiere. In risposta all’intervento sulla “Repubblica”, Andrea Balzola, La vocazione suicida della cultura italiana. Rispondendo alla proposta di Baricco di azzerare i fondi statali per il teatro (120.12), Mimma Gallina, Il polverone Baricco. Impressioni aspettando che si diradi (120.13); Franco D’Ippolito interveniva invece qualche giorno prima a sostegno delle tesi espresse nel sopracitato articolo di Salvatore Carrubba, cfr. I tagli al FUS e la capacità gestionale dei teatranti italiani. A proposito di un intervento di Salvatore Carrubba su “Il Sole 24 Ore” (120.7).
[8] Si vedano le puntualizzazioni dello stesso Alessandro Baricco, Il cambio di scena che serve alla cultura, «La Repubblica», 4 marzo 2009.
[9] Paolo Grassi, Teatro corporativo?, «Sipario», gennaio-febbraio 1948, pp. 79-80.
[10] In questo paragrafo riprendo e rivedo in parte alcune considerazioni contenute in Stefano Locatelli, La ricerca della stabilità. Appunti per uno studio dei primordi del Piccolo Teatro, in Ricerche dall’Archivio Storico del Piccolo Teatro (1947-1963), a cura di Stefano Locatelli, monografico di «Comunicazioni Sociali», XXX (2008), n. 2, pp. 150-195.
[11] Cfr. Francesca Malara, Paolo Grassi il costruttore, in Il Piccolo Teatro di Milano, a cura di Livia Cavaglieri, Roma, Bulzoni, 2002, pp. 32-33.
[12] Preventivo datato 21 settembre 1947, in Archivio Storico del Piccolo Teatro (d’ora in poi ASPT), 01, A47-II.
[13] In ASPT, 01, 47-II
[14] Ibidem.
[15] In ASPT, 01, A47-II.
[16] Lettera in ASPT, 01, A47-II.
[17] Cfr. lettera del 13 febbraio 1948 ad Amedeo Tosti, ibidem.
[18] Grassi, Teatro corporativo?, p. 80.
[19] Grassi, Il teatro e il fascismo, in Fascismo e antifascismo (1918-1936). Lezioni e testimonianze, Milano, Feltrinelli, 1962,  p. 341.
[20] Lettera manoscritta del 18 luglio 1947, in ASPT, Epistolario Grassi, 23.
[21] Si veda il carteggio tra Paolo Grassi e Guido Salvini in ASPT, Epistolario Grassi, 41.
[22] Lettera 19 luglio 1947, conservata in ASPT, Epistolario Grassi, 23.
[23] Lettera 31 luglio 1947, ibidem.
[24] Lettera in ASPT, Epistolario Grassi, 23.
[25] Cfr. Claudio Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Firenze, Sansoni, 1984, pp. 221-222
[26] Cfr. ibidem.
[27] Da una lettera al prof. Amedeo Tosti datata 27 novembre 1947, in ASPT, 001, A47-II.
[28] Lettera 5 marzo 1948 conservata in ASPT, 01, A47-II.
[29] Cfr. lettera a firma Giulio Andreotti, conservata ibidem.
[30] Lettera a firma Nicola De Pirro, ibidem
[31] Cfr. telegramma e lettera ufficiale  a firma Nicola De Pirro, conservati ibidem.
[32] Lettera conservata ibidem.
[33] Lettera del 24 luglio 1948, conservata ibidem.
[34] Cfr. il regolamento Erogazione di sovvenzioni a favore di manifestazioni teatrali di prosa riviste e operette del 23 luglio 1948 che contiene «norme concordate con le competenti associazioni professionali di categoria ed approvate dalla Commissione prevista dall’art. 2» del decreto legislativo 20 febbraio 1948, n. 62, emanate dalla presidenza del consiglio dei ministri-Direzione Generale dello Spettacolo. Il documento dattiloscritto è conservato in ASPT, 01, A47-II.
[35] Roberto Tessari, Teatro italiano del Novecento. Fenomenologie e strutture: 1906-1976, Firenze, Le Lettere, 1996, p. 88.
[36] Cfr. ibidem.
[37] Ha scritto Giorgio Guazzotti: «Mantenendo la continuità oltre che dei centri, dei sistemi di potere, l’azione dello Stato democratico è stata essenzialmente conservatrice e ritardatrice [...]. Le sole innovazioni sostanziali intervenute sul piano normativo sono state imposte dallo spontaneo insorgere di iniziative democratiche nel settore imprenditoriale. Il processo iniziato nel 1947 con il Piccolo Teatro di Milano per la costituzione di teatri cittadini a gestione pubblica ha richiesto, non senza fatica, che la regolamentazione delle sovvenzioni tenesse conto della nuova esigenza; e l’esame in successione delle disposizioni annualmente emanate con le sue stentate rettifiche è la storia dell’accettazione, non senza resistenze, di questo fenomeno»  (Giorgio Guazzotti, Rapporto sul teatro italiano, Milano, Silva, 1966, p. 147).
[38] Per un panorama critico di base si veda almeno Sisto Dalla Palma, Il teatro e le politiche della cultura, in Id., La scena dei mutamenti, Milano, Vita e Pensiero, 2001, pp. 173-224.
[39] Cfr. Francesca Malara, Paolo Grassi il costruttore, in Il Piccolo Teatro di Milano, p. 34. La tesi risulta peraltro ben consolidata e condivisa per esempio anche da F. Taviani, Uomini di scena uomini di libro. Introduzione alla letteratura teatrale italiana del Novecento, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 179.
[40] Si veda Pedullà, Il teatro italiano nel tempo del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 35.
[41] Per un panorama, sia storico sia sulla situazione attuale degli stabili italiani si veda Chiara Merli, Il teatro ad iniziativa pubblica in Italia, Milano, LED, 2007.
[42] Grassi, Il teatro e il fascismo, p. 341.
[43] Si veda per un quadro d’insieme, oltre al già citato Pedullà, Il teatro italiano nel tempo del fascismo, il denso lavoro di Emanuela Scarpellini, Organizzazione teatrale e politica del teatro nell’Italia fascista, Milano, LED, 20042.
[44] Anticipo in nota una possibile obiezione: «è il mercato, se i dirigenti bravi non vengono pagati molto se ne vanno dove li pagano di più, nel privato». Viene subito da chiedersi se, nel privato (e per precisione nei teatri privati) possano attualmente permettersi di pagare certi stipendi. Ma soprattutto c’è sempre una contraddizione interna nei discorsi dei teatranti quando si sollevano certe questioni: il teatro va sostenuto dallo Stato perché non  può sopravvivere entro le logiche di mercato; gli stipendi dei più alti livelli invece devono seguire il mercato. La coerenza è importante per far valere le proprie ragioni a livello politico: se uno Stabile non può sopravvivere dentro una logica pura di mercato, i dirigenti si rendano conto che del mercato non possono avere tutti vantaggi, visto che non ne sopportano in toto gli oneri. Mi sembrerebbe una regola di buon senso stabilire che, nel caso di un teatro comunale, il direttore di tale teatro non può guadagnare più del sindaco, al massimo uguale, ma non di più. La ratio mi sembra ovvia: le istituzioni garantiscono la linfa di vita al teatro e a fronte di questa garanzia, di sicurezza, di effettiva stabilità, i dirigenti tengono i loro salari al livello delle massime cariche statali. Se si vuole che uno Stabile goda dei vantaggi di contributi fissi da parte dello Stato in quanto servizio pubblico, che i dirigenti vengano pagati al massimo quanto vengono pagati i garanti di quei servizi pubblici (sindaco, presidente di regione, ministro, presidente del consiglio). Se si vuole guadagnare di più, si cambino certe regole, come propongo a testo.
[45] Perché, per esempio, non stabilire che, salvo eccezioni, le tournées vanno sostenute con logiche di mercato? Che i costi del giro devono cioè essere sostenuti solo e soltanto dagli incassi o da sponsorizzazioni private e affini, anche al fine di uscire dalla inveterata e spesso vergognosa logica di scambio di favori tra Stabili, dell’io invito te e tu inviti me, a prescindere. I costi di produzione sono stati già sostenuti dallo Stato. Che col mercato si sostenga dunque la distribuzione. Questo col mercato si può ben fare. Lo fanno in tutto il mondo. Perché da noi no? Ovviamente si prevedano su queste voci degli incentivi per quei dirigenti che saranno capaci di costruire tournées importanti per le proprie produzioni migliori, o trovino spettatori paganti e fondi privati per fare arrivare nella propria città le punte d’eccellenza (magari emergenti) del teatro nazionale e internazionale. Insomma, in generale, sullo Stato i dirigenti degli Stabili guadagnino al massimo come le più alte cariche statali, ma quando vanno sul mercato, guadagnino in giusta proporzione ai profitti che producono. Non tutti i teatri stabili sono uguali, ci sono quelli che fanno tournées e festival internazionali (si pensi al festival VIE di Emilia Romagna Teatro), e ci sono quelli che fanno scandalosamente fatica a vendere spettacoli (penso al Teatro Stabile di Torino, per non nascondermi dietro a un dito). Il problema è che le ripartizioni del FUS non tengono conto a sufficienza di questi criteri.
[46] Sisto Dalla Palma, La scena dei mutamenti, Milano, Vita e Pensiero, 2001, p. 176.
[47] Nel caso degli Stabili, per esempio, comuni, regioni e provincie danno in genere contributi che, sommati, superano mediatamente le stesse erogazioni FUS. Caso limite, in particolare, il Teatro Biondo Stabile di Palermo che, dai dati 2008, ha ricevuto dal FUS 880.130 euro, 4.500.000 euro dalla Regione Sicilia, 2.850.000 euro dal comune di Palermo, 980.130 euro dalla Provincia. Faccio riferimento al documento pubblicato dall’Osservatorio sullo Spettacolo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Relazione sull’utilizzazione del Fondo Unico per lo Spettacolo. Anno 2008, p. 197.
[48] Cfr. Dalla Palma, La scena dei mutamenti, p. 179.
[49] I dati sono ricavati da una conversazione privata con un operatore del settore, organizzatore di svariate date del suddetto gruppo in comuni minori dell’Italia del Nord.

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